21.8.17

L’artista estivo


Un quadro è come una canzone, era solito dire mio padre quando da piccolo mi portava ai musei d’arte, dove io mi annoiavo terribilmente. Diceva che la sua bellezza viene inevitabilmente condizionata dalla nostra età, dal nostro stato d’animo, e con il passar del tempo, crescendo, gli attribuiamo altri significati. Trent’anni dopo dovetti ammettere che mio padre aveva ragione.

Quando mio padre da energico agente di borsa passò a essere un vivace pensionato, diventò come un bambino inquieto con molto tempo libero e soldi da spendere. Poiché io ero il maggiore dei suoi figli e l’unico che ancora non gli aveva dato dei nipoti (cosa che gli faceva supporre che fossi quindi il meno impegnato di tutti) ero sempre il primo a ricevere le chiamate di mia madre lamentandosi delle pazzie di mio padre in casa. Infatti, se non era sul tetto cercando di aggiustare un’antenna ormai inservibile, era temerariamente intento a imbiancare la facciata arrampicato in cima a una malandata scaletta di legno. Durante una di queste telefonate arrivò la notizia che temevo; alla fine mio padre si era fatto male all’anca cadendo a terra. Quando andai a visitarlo, era tranquillo seppur sentisse un costante fastidio. Mi sedetti di fianco a lui e dopo avermi dato due pacche sulla spalla, mi chiese di passargli uno dei quadri appesi in sala, quello che raffigurava un tramondo sul mare. Lo guardammo insieme, in silenzio. Ricordavo quella tela da che avevo memoria. Mi raccontò che glielo aveva regalato un pittore colombiano chiamato Paco Navarro, con il quale fece amicizia durante la luna di miele a San Andrés nell’estate del 1977. Continuó raccontando che a Paco piaceva dipingere guardando il sole e bevendo un calice di vino bianco, e che in un solo pomeriggio diventarono amici. Mia madre aggiunse che quando lo conobbero, il quadro era quasi pronto e lo avrebbe terminato quella stessa sera. Osservai che l’opera non aveva la firma dell’artista e al menzionarlo notai che mio padre s’inombrò. Mi confessò che stava organizzando di andare a San Andrés alla ricerca del suo vecchio amico, ma ora con il problema all’anca non sapeva se sarebbe mai riuscito a farlo. Fu quel triste sospiro che seguì e il suo sguardo, quello di un bambino intrappolato nel corpo dolorante di un anziano, ciò che mi convinse tanto da dirgli, quasi senza pensare, che avrei potuto andare io a cercare Paco Navarro. Girò la testa, mi guardò e mi abbracciò forte mentre io realizzavo in quell’istante ciò che gli avevo appena promesso.

Quando dissi alla mia fidanzata che sarei andato in Colombia, terra di donne bellissime e -soprattutto- in un villaggio turistico caraibico per farmi firmare un quadro, si mise a ridere per l’incredulità. Probabilmente si arrabbiò moltissimo pensando che sicuramente avevo un’amante. Se non fosse che le mostrai il quadro e la lettera che mio padre aveva scritto, la cosa sarebbe finita male. E se non fosse stato per i suoi occhietti che mi chiedevano se avrei sentito la sua mancanza, non avrei comprato i biglietti del volo anche pe lei. Era la nostra prima volta a San Andrés e vedendo tutta quella meraviglia naturale non ebbi il minimo dubbio. Ero stato concepito in quel luogo nel quale anche due pietre avrebbero potuto innamorarsi. Ci mettemmo solo un’ora a trovare Francisco León Navarro. Era proprio come mio padre lo aveva descritto: un tipo cordiale, rilassato, bassino, magro e dal sorriso facile. Gli dissi che venivo da parte di un vecchio conoscente e che gli stavo per chiedere un gran favore. Senza lasciarmi finire di parlare chiarì subito che non aveva soldi, però poteva offrirci un calice di vino bianco. Ci conosceva a stento ma sembrava contento di avere visite. Camminava con difficoltà e nonostante l’età avanzata fece un paio di complimenti maliziosi alla mia fidanzata alla quale non dispiacquero. La casa era piccola e la quantità di sculture, libri e quadri la rendevano ancora più piccola. In quel disordine, mentre bevevamo il vino, Paco si sistemó il cappello di paglia e tirò fuori vari ritagli di giornale per farci vedere tutte le volte che lo avevano intervistato. Disse che dipingeva solo in estate e che in ogni caso aveva smesso perchè ultimamente non vedeva più tanto bene. Ricordava però perfettamente ognuna di quelle sessantatré estati da quando si era trasferito sull’isola. Guardavamo i ritagli; nelle foto indossava sempre il cappellino ed era sorridente. Decisi che era il momento giusto per dargli la lettera di mio padre e vedere se gli portava alla memoria qualche ricordo. In quel momento Paco Navarro si lasciò cadere dalla sedia. Quando si rese conto di quello che avevo nel sacchetto mi chiese di passargli il quadro. Lo prese in mano, lo accarezzò, lo guardò per qualche minuto e alla fine ci disse emozionato che aveva aspettato per tutta la vita di poter rivederlo, “È come il figlio che stavo cercando”.

Io non sono un artista e posso solo immaginare quanto possa essere difficile capire il legame che esiste tra un pittore e l’opera che crea, ma, come mi disse Paco prima di salutarmi probabilmente per sempre: “la tristezza di lasciare andare un amore è proporzionale al tempo e al sentimento che hai investito per realizzarlo”. E su questo non posso che dargli completamente ragione.

Nessun commento :

Posta un commento