27.8.22

Un castello sulle nuvole


Quando aprì gli occhi, si trovò su un'isola minuscola, dove potevano stare solo due persone. Ed eccola lì. Avrebbe assicurato che quella ragazza dai capelli biondi disordinati che lo guardava con timidezza non aveva altra scelta, ma preferiva convincersi che il suo sorriso luminoso significava la sincera considerazione della sua compagnia nel mezzo del nulla. Diede un'occhiata dove credeva di vedere una nave in lontananza e dopo diversi sforzi per affinare gli occhi, finalmente la nave iniziò a essere notata sempre meglio, un chiaro segno che erano stati avvistati. Si girò per dare la buona notizia alla sua bella compagna di naufragio, ma lei era scomparsa.

A differenza dei milioni di sogni che aveva fatto fino a quel momento e che finirono per svanire rapidamente nella sua memoria, poteva ricordare perfettamente ogni dettaglio di quell'isola, come la sabbia tiepida, il rumore del mare che accarezzava la riva, la brezza fresca e soprattutto il sorriso indelebile della bionda. Non avrebbe dato tanta importanza alla questione se non fosse stato per il fatto che la notte successiva l'avrebbe rivista, sempre radiosa, con quei capelli dorati indomiti del vento. Per la seconda volta lei si limitò a sorridergli e alla minima distrazione, bella e silenziosa, era già andata via.

Col passare del tempo, l'evento si ripetette più frequentemente e lui, invece di preoccuparsi, aspettava con emozione l’arrivare della notte per vederla ancora. Nonostante non avesse mai detto una parola, lui era riuscito a conoscerla, osservando attentamente i suoi gesti dolci, il suo sguardo, il modo in cui si muoveva nell'ambiente in cui si trovavano, in un mondo che cambiava ogni volta. Quando scoprì che poteva adattarlo a suo piacimento se prima di dormire leggeva un libro, comprò decine di enciclopedie, libri di storia universale e riviste di viaggi nello spazio, i suoi argomenti preferiti, per condividerli con lei. Così si incontrarono per  attraversare insieme il Rio delle Amazzoni in canoa, saltellare audacemente tra i satelliti di Giove e decorare l'ingresso di un castello medievale costruito sulle nuvole. L'idea del castello era stata geniale, facevano lunghe passeggiate nel patio centrale, si affacciavano dalle finestre più alte e apprezzavano insieme l'azzurro infinito del cielo, come se fosse un immenso giardino disegnato apposta per loro due e decorato con comode panchine di nuvole bianche. Si sentiva libero. Non c'erano pregiudizi, confini o limiti, bastava desiderare per realizzare i propri sogni in quel meraviglioso universo che a volte durava meno di otto ore. Erano liberi.

Un giorno, anzi una notte, mentre passeggiavano su una spiaggia di sabbia bianca, mano nella mano a guardare un tramonto rossastro estivo, provò vertigini e fragilità, sensazioni già note che significavano un risveglio imminente. Cadde sulla sabbia e quando volle accarezzare i capelli della sua amata, si accorse di non sentire quella morbidezza a cui era abituato, stava perdendo conoscenza. Prima di perdersi completamente, lei, che fino a quel momento non aveva detto una parola, si avvicinò a lui come se volesse baciarlo e con una voce che non avrebbe mai dimenticato, gli disse: "Resta per sempre con me". Non appena ebbe finito di pronunciare quella frase, si svegliò. I suoi tentativi di riaddormentarsi furono inutili, voleva tanto risponderle di sì, che era disposto a passare l’intera vita con lei, anche se questo significasse dover dormire per il resto della sua esistenza. Disperato, saltò giù dal letto, vestito come meglio poteva e andò a cercare una farmacia. Comprò sonniferi sufficienti per sconfiggere un gigante e quando tornò a casa indossò il suo pigiama migliore, prese una bottiglia d'acqua e senza pensarci due volte ingoiò le pasticche, svenendo in pochi minuti.

Eccola lì, in un abito bianco che delineava le sue curve delicate, scalza su un tappeto verde di erba umida, avvicinandosi lentamente a lui, che la aspettava sotto l’ombra di una vecchia quercia. Si scambiarono un sorriso, chiusero gli occhi e lasciarono che le loro labbra si incontrassero per la prima volta in quel bosco magico. Non voleva aprire gli occhi, aveva paura di svegliarsi e di ritrovarsi confuso in mezzo alla frivola realtà in cui non si sentiva più a suo agio. Gli cinse il collo con le braccia e lo baciò ancora più forte, come se avesse sentito i suoi pensieri. Improvvisamente il suolo iniziò a tremare e scuotersi, formandosi crepe dappertutto, le radici dell’albero si staccarono da terra, crollando lenta ma pericolosamente su di loro. Quando lui si girò per proteggerla, lei era sparita. Sentì tutto il peso del tronco secolare cadere sulle spalle, non riusciva a respirare, l’agitazione del terreno spezzava di più le sue ossa. Nonostante l'immenso dolore, non era niente in confronto alla sensazione di sapere che lei non era al suo fianco. Perse conoscenza per alcuni istanti e quando la riprese si ritrovò nel letto di un ospedale. A pochi metri da lui, sua madre piangeva.

La decisione fu difficile ma non aveva scelta. Tornò a vivere dai suoi genitori, dove aveva forse trascorso i suoi anni migliori. Guardò la sua camera da letto, in cui era cresciuto e dove il tempo sembrava essersi fermato. Lo stesso letto stretto, i poster delle rockband, la scrivania di legno. Aveva promesso a sua madre di recuperare il tempo perso, di non azzardare mai più stupide cose e di apprezzare il mondo così com'era. Quelle folli fantasie dei castelli medievali e della bionda silenziosa erano probabilmente solo una liberazione necessaria ma temporanea. Dopo cena baciò la madre sulla fronte e si chiuse in camera da letto, proprio come ai bei tempi del liceo. Appoggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. La mattina dopo sarebbe stato un altro giorno, una nuova occasione per poter ricostruire tutto ciò che era stato lasciato da parte. Ma solo lui in fondo sapeva che quella notte, come tutte le sue notti, l'avrebbe passata con la donna dei suoi sogni.


Eduardo Ramon (Amburgo, 2016)

25.8.22

Un lungo viaggio


Il viaggio è stato lungo, i miei passi non sono più quelli di una volta, neanche i miei sogni, che sono asincroni con il mondo immediato in cui viviamo oggi. Il viaggio è stato lungo ed estenuante e io, che sono stato un viaggiatore per gran parte della mia vita, sono rassegnato ad accettare che ora questo cuore avventuroso sia rinchiuso in un'armatura vecchia e obsoleta, che tuttavia porta le cicatrici del suo intenso passato. Il viaggio è stato lungo ma ne è valsa la pena, considerando che sarà l'ultimo.

Allontanarmi da questa città fu come un divorzio forzato, un addio senza preavviso. Dopo aver perso la mia famiglia nell'inverno del 1964 in quel dannato incidente stradale, mi convinsi ad allontanarmi completamente da quegli sguardi pietosi di tutti quelli che mi si avvicinavano. Anni dopo capii che qualcuno voleva davvero aiutarmi, ma quando sei giovane le idee più aggressive e audaci vincono. Vendei tutto e attraversai l'Atlantico per curare le mie ferite fisiche ed emotive, alcune delle quali rimangono oggi, cinquant'anni dopo.

Ero pronto per iniziare un nuovo capitolo della mia vita. Mentre per molti compiere ventidue anni significava solo l’inizio delle grandi sfide, dei primi traguardi, io invece mi sentivo una specie di veterano di guerra con la pelle dura e insensibile a qualsiasi evento mi accadesse. Insomma, avevo imbrogliato la morte e pagato il prezzo con la mia assoluta solitudine, cosa di peggio poteva capitarmi. Iniziai con Madrid, in via de Bravo Murillo, in una stanzetta sopra un ristorante cinese dove poi mi assunsero come assistente di cucina. Non subii fame, ma finivo le giornate così stanco che la mia mente si rifiutava di fabbricare sogni ogni notte. Con i soldi risparmiati andai a Lione e il destino – o la mia mancanza di giudizio – mi portò in un altro ristorante cinese, riscoprendomi con piatti impronunciabili e frigoriferi pieni di carni sospette. I miei soggiorni a Lione sono stati felici. Dico soggiorni perché partivo e dopo qualche mese tornavo. C'era sempre qualcuno disposto a lasciare quella città e io ero lì con lo zaino pronto a farmi dare un passaggio. Mi ci sono voluti anni, molti viaggi e alcuni bar memorabili per capire che non esisteva una vita "normale", come avevo sentito dire mia madre tante volte. Ognuno di noi è un universo complesso di idee, ricordi e speranze, tutte diverse e tutte imprevedibili. Quella scoperta mi salvò la vita e poiché mi ero salvato due volte, sapevo che potevo lanciarmi in altre sfide. Passai inverni bui e freddissimi a Parigi con Veronica, il mio secondo amore, perché lasciai il primo in quella città della quale mi ero ripromesso di non mettere più piede. Insieme abbiamo vissuto anche estati pazze a Nizza, girando in una bicicletta rossa. Gli anni Settanta sono stati i migliori e chi li ha vissuti sa cosa intendo.

Ma proprio in quegli anni ho pensato che sarei rimasto solo per sempre. Che le mie paure e i miei traumi non potessero permettermi di rendere felice una donna. Anche l'amore è una cosa rara, di quelle che non si possono definire perché ne limiterebbe la portata. Con Veronica abbiamo interrotto i nostri viaggi per stabilirci a Lione, dove ci eravamo conosciuti. Lei scelse la casa e parcheggiò fuori la sua bici rossa. Poco dopo diventò mia moglie e infine madre dei nostri quattro figli. Sono stati gli anni migliori delle nostre vite. Due di loro lasciarono la casa poco dopo il loro diciottesimo compleanno per cercare fortuna negli Stati Uniti, un'ambizione che li portò a fondare la più grande catena di ristoranti di lusso della costa occidentale. Gli altri due, il più piccolo e il più grande, si trasferirono a poche ore da dove abitavamo appena si sono sposati. Era strano sentirsi di nuovo soli, nonostante con Veronica ci divertissimo giocando a carte e facendo brevi gite nei fine settimana. I nostri figli ci avevano regalato non solo un'enorme felicità ma anche uno stile di vita che una pensione non avrebbe mai potuto coprire. Avevamo fatto bene il nostro lavoro, quattro volte.

Dissi addio a Veronica il 10 giugno del 2014, accompagnato dai miei figli e sei nipoti. La mia compagna di avventure e viaggi folli si ammalò improvvisamente. Una notte mi diede un bacio come sempre e la mattina dopo era lì, bella e tranquilla, dalla sua parte del letto. Le promisi di continuare a viaggiare e a fotografare, abitudine che avevamo acquisito di recente. Quando la famiglia se ne andò pochi giorni dopo il funerale, mi sentii stanco, non volevo più fare le valigie. Come se il mio corpo si fosse improvvisamente reso conto di quanti anni stava trasportando. Dopo notti insonni, litigai al telefono con uno dei miei figli. Avevo deciso di tornare dove tutto ebbe inizio, riconciliarmi con quella città che mi vide partire ingrato mezzo secolo fa. Non c'era niente a Lione che mi legasse a restare, tranne forse i pomeriggi di fronte al Rodano ad assaporare la brezza che filtrava tra le foglie degli alberi. O giocare a perdermi in uno dei suoi traboules. Ma tutto questo rimarrebbe nella mia memoria, potrei quindi dire addio alla casa di Lione e alla bicicletta rossa di Veronica. Sentivo che potevo finalmente tornare dove ero nato, visitare la tomba dei miei genitori e fratelli e chiederli perdono per non essere venuto a trovarli prima. I miei figli hanno capito il capriccio del loro vecchio e hanno accettato la sua ultima avventura. Starò a casa dei miei cugini, vicino al mare, dove siamo cresciuti e ora finiremo di invecchiare insieme. Li racconterò ogni giorno quello che i miei occhi hanno visto, spero di avere abbastanza tempo. Sono stato accolto da un cielo terso, un sole imponente e una città diversa. È stato un lungo viaggio, le ho detto, ma sono tornato.


Eduardo Ramon (Milano, 2014) 

23.8.22

L'altro lato del letto



È l'ennesima volta che torno a casa tardi per aver ceduto di nuovo alle tentazioni degli amici dopo la partita di calcetto del venerdì sera. Attraverso la sala da pranzo, guidato dallo schermo del cellulare e quando arrivo in cucina svuoto senza difficoltà mezza caraffa d'acqua. Questa routine già ripassata e rivista mi sarebbe servita in passato a sbozzare mentalmente la scusa che mi avrebbe risparmiato dal finire condannato a dormire sul divano. Ma questa volta non voglio impegnarmi, ho deciso di assumermi le conseguenze dei miei errori. Mi spoglio mentre salgo in punta di piedi sulle scale, convinto di sottomettermi alla punizione imminente, un azzardo che tuttavia mi dà un senso di calma mentre apro lentamente la porta della camera da letto. Guardo la forma del suo corpo, coperto sotto le lenzuola dall'altro lato del letto, recupero il pigiama sotto il cuscino e in poco tempo mi ritrovo sdraiato, sbronzo e pentito. Dubito della mia capacità di intrufolarmi inavvertito, quindi presumo che lei sia così arrabbiata, o rassegnata, che non si è nemmeno degnata di girarsi. 

Passano i minuti e mi chiedo se vale la pena dire qualcosa di sensato ora o se è meglio aspettare fino al mattino. La mia testa non smette di girarmi, decido di alzarmi ed esiliarmi volontariamente nel mio angolo di punizione per passare lì quel che resta della notte. Mi siedo sul blando divano del soggiorno, che nei suoi anni frenetici fu complice di infinite ore di svago e in tanti altri silenzioso testimone di esplosioni carnali, quando con mia moglie assaporammo spontaneamente i mieli del piacere. Questi ricordi vengono improvvisamente interrotti perché sento che c'è qualcuno che sta inserendo una chiave nella serratura della porta d'ingresso.

Mi metto subito in piedi, le mie braccia sono tese, il cuore è a punto di scoppiare, la sbornia è già una cosa del passato. Afferro una statuetta in marmo di David, regalo di mia suocera. Trattengo la voglia di urlare, mi preparo al peggio mentre la maniglia inizia a girare. Sto per sferrare un colpo deciso, secco, emulando l'eroe epico che ho tra le mani, ma mi fermo nel momento preciso in cui riconosco gli occhi terrorizzati di mia moglie quando mi vede pronto ad attaccarla. Il mio corpo si indebolisce improvvisamente, un brivido annuncia che sto per svenire e se non fosse stato per il suo tenero abbraccio sarei finito per crollare a terra accanto il David. Avevo completamente dimenticato che lei era via per lavoro. Sono un idiota, stavo per commettere un crimine orribile! Due secondi dopo queste riflessioni, nell'ultimo respiro e prima di perdere la testa per sempre, mi chiedo chi, o cosa, giace ancora sul letto della nostra stanza.


Eduardo Ramon (Amsterdam, 2017)

19.8.22

Déjà vu

L'uomo che seguo con attenzione non si ferma un minuto e continua a camminare a passo spedito. Sono a una quarantina di metri dietro di lui, a volte guarda in entrambe le direzioni, come se fosse un tic nervoso. Tiene le mani in tasca, forse è il freddo tenue dell'inverno quasi spento o forse si nasconde lì il motivo per cui lo seguo.

Non perdo di vista il mio obiettivo, a furia tanto guardarlo posso prevederne i movimenti. Cammina in modo strano, come se le sue scarpe lo infastidissero ed evitasse l'attrito con i talloni ad ogni passo. La sua mania di guardare ai lati ha cominciato a infastidirmi, così decido di calmarmi accendendo l'ultima sigaretta, mentre proseguiamo lungo l'enorme e trafficato viale.

Nei cinque secondi che mi ci sono voluti per accendere la sigaretta, due soggetti mi hanno superato su entrambi i lati e mi ci sono voluti altri cinque secondi per capire che stavano cercando lo stesso uomo. La mia curiosità si trasforma in preoccupazione, e la preoccupazione si trasforma in terrore mentre accelerano il passo mentre la loro preda gira per una strada. Per un attimo li perdo di vista, non posso più simulare e affretto la marcia. Loro sono troppo vicini e io sono troppo lontano. Uno dei soggetti si separa dall'altro e attraversa la strada. Mi distraggo e quando guardo indietro è già tardi: quello che non ha attraversato la strada ha estratto una pistola dal cappotto e ha allungato il braccio puntandolo verso la testa dell'individuo che stava seguendo e che ormai conosco. So che non si guarderai mai indietro.

Il colpo del proiettile risuona per tutta la strada e il poveraccio cade a faccia in giù sul marciapiede. Maledetti! La gente inizia a urlare e correre, i due uomini scompaiono rapidamente dalla scena. Io sono l'unico che, invece di indietreggiare, si avvicina alla figura immobile del disgraziato, che affoga i suoi ultimi respiri nel proprio sangue. Durante il breve tratto, incrocio lo sguardo con una giovane ragazza che ha l’espressione di avermi già visto. Mi passa accanto, sfiorando leggermente la sua mano sinistra con la mia. Raggiungo la vittima, che giace distesa in una pozza scarlatta. Quasi senza pensare, gli afferro la spalla e lo giro verso di me. È allora che le mie ginocchia cadono pesanti sul selciato, rompendosi con il resto del mio corpo, scoprendo che l'uomo che hanno ucciso sono io.


Eduardo Ramon (Milano, 2015)

Camera a gas


Tutto cominciò un martedì mattina con un semplice fastidio al collo. Elena diede la colpa al suo cuscino, che non aveva più la forma ergonomica di prima. Due giorni dopo, tuttavia, trovò dei lividi e graffi su diverse parti del suo corpo sempre più dolorante. Quando il medico le spiegò che poteva trattarsi di sonnambulismo, lei rifiutò l'idea di prendere appuntamento dallo psicologo e di monitorare le sue funzioni vitali durante il sonno.

Non beveva, non fumava, aveva sempre fatto attenzione a ciò che mangiava e da quando frequentava l'università andava in palestra, sembrava strano che le stesse capitando un disturbo del genere. La paura di dover stravolgere la sua routine le fece annullare la prossima visita programmata dallo specialista. Chiese alla sua migliore amica di trascorrere la notte insieme, osservando i suoi movimenti. Lei arrivò il venerdì con il computer carico di film, pronta per rimanere sveglia. Entrambi aprirono gli occhi il giorno dopo alle nove. L'amica non ricordava quando si era addormentata, il computer era ancora sulle sue gambe con la batteria completamente scarica, segno che era stato acceso tutta la notte. Elena non notò nessun nuovo livido sul corpo, il che la sollevò. Probabilmente stare in compagnia le aveva permesso di riposare bene. Mentre stava preparando la colazione, sentì l'urlo della sua amica provenire dal bagno. Corse immediatamente a vedere cosa stava succedendo e la trovò impallidita davanti allo specchio, indicando col dito qualcosa sul suo petto. Il primo bottone che chiudeva la scollatura del suo pigiama era stato strappato via e in quello spazio esposto della pelle c'era una piccola ferita rossastra, come se fosse stata fatta con un oggetto affilato. Chiamò immediatamente il suo medico e descrisse con nervosismo cosa era successo. Lui insistette che l'evento confermava un disturbo del sonno in fase di sviluppo e che era necessario iniziare le cure quanto prima.

Nonostante perquisirono l'intero appartamento, il bottone del pigiama non fu mai trovato. Nel pomeriggio, Elena salutò la sua amica che non riusciva ancora a superare lo spavento, e si vergognò di chiederle di passare con lei un'altra notte. Si sentiva angosciata, non riusciva a credere di essere capace di fare del male agli altri né a se stessa. Chiamò i sui genitori, che vivevano a circa tre ore da casa sua, per raccontare quello che era successo negli ultimi giorni. Fino a quel momento aveva nascosto il problema ma non poteva più tacere. La rassicurarono dicendo che sarebbero arrivati la mattina dopo per stare con lei e accompagnarla in ospedale. Doveva solo mantenere la calma ed essere paziente per qualche ora in più. 

Poiché l'esperimento della scorsa notte era fallito, prima di addormentarsi le venne in mente di lasciare il computer acceso con la telecamera puntata verso il suo letto. Era determinata a scoprire una volta per tutte cosa stava facendo inconsciamente. La notte procedeva e gli occhi di Elena si chiudevano, sfiniti. La piccola luce LED della telecamera tagliava leggermente l'oscurità della stanza. Poco dopo mezzanotte, il condizionatore si accese automaticamente, rilasciando un gas nocivo. In pochi secondi l'aria nella stanza divenne stantia ed Elena svenne sotto le lenzuola, al punto da sembrare un cadavere. Lentamente, la porta della camera da letto iniziò ad aprirsi, facendo uno scricchiolio quasi impercettibile. La telecamera, sempre imperturbabile, assistette all'irruzione di due figure scheletriche sul palco poco illuminato. Niente ruppe la calma in quell'ambiente, nemmeno quando spogliarono Elena e le passarono ripetutamente le loro unghie decomposte sul corpo inerte, in una specie di rituale perverso. Quella telecamera impassibile fu lasciata accesa abbastanza a lungo da vedere più di una persona perdere la ragione il giorno successivo, quando scoprirono cosa avevano fatto quelle creature con Elena, nella sesta e ultima delle loro visite.


Eduardo Ramon (Roma, 2014)