tag:blogger.com,1999:blog-41046119248025980412024-03-13T03:14:07.664+01:00viaexprosaviaexprosa in Italianoviaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.comBlogger38125tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-48377636596176478492022-08-27T06:11:00.000+02:002022-08-27T06:11:53.135+02:00Un castello sulle nuvole<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsLp0je2liVZw8pb6iKsJwZB6pOzMHY1uGJsGBao1HHPF90WPQ_Bcb_sNFVHYr0wOiMLZLpvJIx3hQGhIcrNVD9S5akohzisJkcsWZa8Y5gpA3_mnG1jikfFM02fbxcOjN2YpVmfRlAsND2JK4a1mr6VBtkRAkMZM33Pd3zeXKQwi5Q44BdJlxAjjt/s400/castello-nuvole.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsLp0je2liVZw8pb6iKsJwZB6pOzMHY1uGJsGBao1HHPF90WPQ_Bcb_sNFVHYr0wOiMLZLpvJIx3hQGhIcrNVD9S5akohzisJkcsWZa8Y5gpA3_mnG1jikfFM02fbxcOjN2YpVmfRlAsND2JK4a1mr6VBtkRAkMZM33Pd3zeXKQwi5Q44BdJlxAjjt/s320/castello-nuvole.jpg" width="320" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Quando aprì gli occhi, si trovò su un'isola minuscola, dove potevano stare solo due persone. Ed eccola lì. Avrebbe assicurato che quella ragazza dai capelli biondi disordinati che lo guardava con timidezza non aveva altra scelta, ma preferiva convincersi che il suo sorriso luminoso significava la sincera considerazione della sua compagnia nel mezzo del nulla. Diede un'occhiata dove credeva di vedere una nave in lontananza e dopo diversi sforzi per affinare gli occhi, finalmente la nave iniziò a essere notata sempre meglio, un chiaro segno che erano stati avvistati. Si girò per dare la buona notizia alla sua bella compagna di naufragio, ma lei era scomparsa.</p><p style="text-align: justify;">A differenza dei milioni di sogni che aveva fatto fino a quel momento e che finirono per svanire rapidamente nella sua memoria, poteva ricordare perfettamente ogni dettaglio di quell'isola, come la sabbia tiepida, il rumore del mare che accarezzava la riva, la brezza fresca e soprattutto il sorriso indelebile della bionda. Non avrebbe dato tanta importanza alla questione se non fosse stato per il fatto che la notte successiva l'avrebbe rivista, sempre radiosa, con quei capelli dorati indomiti del vento. Per la seconda volta lei si limitò a sorridergli e alla minima distrazione, bella e silenziosa, era già andata via.</p><p style="text-align: justify;">Col passare del tempo, l'evento si ripetette più frequentemente e lui, invece di preoccuparsi, aspettava con emozione l’arrivare della notte per vederla ancora. Nonostante non avesse mai detto una parola, lui era riuscito a conoscerla, osservando attentamente i suoi gesti dolci, il suo sguardo, il modo in cui si muoveva nell'ambiente in cui si trovavano, in un mondo che cambiava ogni volta. Quando scoprì che poteva adattarlo a suo piacimento se prima di dormire leggeva un libro, comprò decine di enciclopedie, libri di storia universale e riviste di viaggi nello spazio, i suoi argomenti preferiti, per condividerli con lei. Così si incontrarono per attraversare insieme il Rio delle Amazzoni in canoa, saltellare audacemente tra i satelliti di Giove e decorare l'ingresso di un castello medievale costruito sulle nuvole. L'idea del castello era stata geniale, facevano lunghe passeggiate nel patio centrale, si affacciavano dalle finestre più alte e apprezzavano insieme l'azzurro infinito del cielo, come se fosse un immenso giardino disegnato apposta per loro due e decorato con comode panchine di nuvole bianche. Si sentiva libero. Non c'erano pregiudizi, confini o limiti, bastava desiderare per realizzare i propri sogni in quel meraviglioso universo che a volte durava meno di otto ore. Erano liberi.</p><p style="text-align: justify;">Un giorno, anzi una notte, mentre passeggiavano su una spiaggia di sabbia bianca, mano nella mano a guardare un tramonto rossastro estivo, provò vertigini e fragilità, sensazioni già note che significavano un risveglio imminente. Cadde sulla sabbia e quando volle accarezzare i capelli della sua amata, si accorse di non sentire quella morbidezza a cui era abituato, stava perdendo conoscenza. Prima di perdersi completamente, lei, che fino a quel momento non aveva detto una parola, si avvicinò a lui come se volesse baciarlo e con una voce che non avrebbe mai dimenticato, gli disse: "<i>Resta per sempre con me</i>". Non appena ebbe finito di pronunciare quella frase, si svegliò. I suoi tentativi di riaddormentarsi furono inutili, voleva tanto risponderle di sì, che era disposto a passare l’intera vita con lei, anche se questo significasse dover dormire per il resto della sua esistenza. Disperato, saltò giù dal letto, vestito come meglio poteva e andò a cercare una farmacia. Comprò sonniferi sufficienti per sconfiggere un gigante e quando tornò a casa indossò il suo pigiama migliore, prese una bottiglia d'acqua e senza pensarci due volte ingoiò le pasticche, svenendo in pochi minuti.</p><p style="text-align: justify;">Eccola lì, in un abito bianco che delineava le sue curve delicate, scalza su un tappeto verde di erba umida, avvicinandosi lentamente a lui, che la aspettava sotto l’ombra di una vecchia quercia. Si scambiarono un sorriso, chiusero gli occhi e lasciarono che le loro labbra si incontrassero per la prima volta in quel bosco magico. Non voleva aprire gli occhi, aveva paura di svegliarsi e di ritrovarsi confuso in mezzo alla frivola realtà in cui non si sentiva più a suo agio. Gli cinse il collo con le braccia e lo baciò ancora più forte, come se avesse sentito i suoi pensieri. Improvvisamente il suolo iniziò a tremare e scuotersi, formandosi crepe dappertutto, le radici dell’albero si staccarono da terra, crollando lenta ma pericolosamente su di loro. Quando lui si girò per proteggerla, lei era sparita. Sentì tutto il peso del tronco secolare cadere sulle spalle, non riusciva a respirare, l’agitazione del terreno spezzava di più le sue ossa. Nonostante l'immenso dolore, non era niente in confronto alla sensazione di sapere che lei non era al suo fianco. Perse conoscenza per alcuni istanti e quando la riprese si ritrovò nel letto di un ospedale. A pochi metri da lui, sua madre piangeva.</p><p style="text-align: justify;">La decisione fu difficile ma non aveva scelta. Tornò a vivere dai suoi genitori, dove aveva forse trascorso i suoi anni migliori. Guardò la sua camera da letto, in cui era cresciuto e dove il tempo sembrava essersi fermato. Lo stesso letto stretto, i poster delle rockband, la scrivania di legno. Aveva promesso a sua madre di recuperare il tempo perso, di non azzardare mai più stupide cose e di apprezzare il mondo così com'era. Quelle folli fantasie dei castelli medievali e della bionda silenziosa erano probabilmente solo una liberazione necessaria ma temporanea. Dopo cena baciò la madre sulla fronte e si chiuse in camera da letto, proprio come ai bei tempi del liceo. Appoggiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. La mattina dopo sarebbe stato un altro giorno, una nuova occasione per poter ricostruire tutto ciò che era stato lasciato da parte. Ma solo lui in fondo sapeva che quella notte, come tutte le sue notti, l'avrebbe passata con la donna dei suoi sogni.</p><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Eduardo Ramon (Amburgo, 2016)</div>viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-22416001653253401262022-08-25T11:28:00.000+02:002022-08-25T11:28:20.096+02:00Un lungo viaggio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvRlmLTxiv29tjCimuj80Sb478sIRgJUL3LzNiaqujMC5aKwC0zmMxWLz1dDjFZAUwm74OnZ3nEMhTIq3rYDCMBtdyosv8vN7MhRv4mRYvcGW0TjyZjwe8fYPbd13lQu9QbFMMF9wzGo86WTFn88WOkuWVSjo9fWD9bc_lHhO7HpZuTMdEzFWJcjXc/s400/lungo-viaggio.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvRlmLTxiv29tjCimuj80Sb478sIRgJUL3LzNiaqujMC5aKwC0zmMxWLz1dDjFZAUwm74OnZ3nEMhTIq3rYDCMBtdyosv8vN7MhRv4mRYvcGW0TjyZjwe8fYPbd13lQu9QbFMMF9wzGo86WTFn88WOkuWVSjo9fWD9bc_lHhO7HpZuTMdEzFWJcjXc/s320/lungo-viaggio.png" width="320" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Il viaggio è stato lungo, i miei passi non sono più quelli di una volta, neanche i miei sogni, che sono asincroni con il mondo immediato in cui viviamo oggi. Il viaggio è stato lungo ed estenuante e io, che sono stato un viaggiatore per gran parte della mia vita, sono rassegnato ad accettare che ora questo cuore avventuroso sia rinchiuso in un'armatura vecchia e obsoleta, che tuttavia porta le cicatrici del suo intenso passato. Il viaggio è stato lungo ma ne è valsa la pena, considerando che sarà l'ultimo.</p><p style="text-align: justify;">Allontanarmi da questa città fu come un divorzio forzato, un addio senza preavviso. Dopo aver perso la mia famiglia nell'inverno del 1964 in quel dannato incidente stradale, mi convinsi ad allontanarmi completamente da quegli sguardi pietosi di tutti quelli che mi si avvicinavano. Anni dopo capii che qualcuno voleva davvero aiutarmi, ma quando sei giovane le idee più aggressive e audaci vincono. Vendei tutto e attraversai l'Atlantico per curare le mie ferite fisiche ed emotive, alcune delle quali rimangono oggi, cinquant'anni dopo.</p><p style="text-align: justify;">Ero pronto per iniziare un nuovo capitolo della mia vita. Mentre per molti compiere ventidue anni significava solo l’inizio delle grandi sfide, dei primi traguardi, io invece mi sentivo una specie di veterano di guerra con la pelle dura e insensibile a qualsiasi evento mi accadesse. Insomma, avevo imbrogliato la morte e pagato il prezzo con la mia assoluta solitudine, cosa di peggio poteva capitarmi. Iniziai con Madrid, in via de Bravo Murillo, in una stanzetta sopra un ristorante cinese dove poi mi assunsero come assistente di cucina. Non subii fame, ma finivo le giornate così stanco che la mia mente si rifiutava di fabbricare sogni ogni notte. Con i soldi risparmiati andai a Lione e il destino – o la mia mancanza di giudizio – mi portò in un altro ristorante cinese, riscoprendomi con piatti impronunciabili e frigoriferi pieni di carni sospette. I miei soggiorni a Lione sono stati felici. Dico soggiorni perché partivo e dopo qualche mese tornavo. C'era sempre qualcuno disposto a lasciare quella città e io ero lì con lo zaino pronto a farmi dare un passaggio. Mi ci sono voluti anni, molti viaggi e alcuni bar memorabili per capire che non esisteva una vita "normale", come avevo sentito dire mia madre tante volte. Ognuno di noi è un universo complesso di idee, ricordi e speranze, tutte diverse e tutte imprevedibili. Quella scoperta mi salvò la vita e poiché mi ero salvato due volte, sapevo che potevo lanciarmi in altre sfide. Passai inverni bui e freddissimi a Parigi con Veronica, il mio secondo amore, perché lasciai il primo in quella città della quale mi ero ripromesso di non mettere più piede. Insieme abbiamo vissuto anche estati pazze a Nizza, girando in una bicicletta rossa. Gli anni Settanta sono stati i migliori e chi li ha vissuti sa cosa intendo.</p><p style="text-align: justify;">Ma proprio in quegli anni ho pensato che sarei rimasto solo per sempre. Che le mie paure e i miei traumi non potessero permettermi di rendere felice una donna. Anche l'amore è una cosa rara, di quelle che non si possono definire perché ne limiterebbe la portata. Con Veronica abbiamo interrotto i nostri viaggi per stabilirci a Lione, dove ci eravamo conosciuti. Lei scelse la casa e parcheggiò fuori la sua bici rossa. Poco dopo diventò mia moglie e infine madre dei nostri quattro figli. Sono stati gli anni migliori delle nostre vite. Due di loro lasciarono la casa poco dopo il loro diciottesimo compleanno per cercare fortuna negli Stati Uniti, un'ambizione che li portò a fondare la più grande catena di ristoranti di lusso della costa occidentale. Gli altri due, il più piccolo e il più grande, si trasferirono a poche ore da dove abitavamo appena si sono sposati. Era strano sentirsi di nuovo soli, nonostante con Veronica ci divertissimo giocando a carte e facendo brevi gite nei fine settimana. I nostri figli ci avevano regalato non solo un'enorme felicità ma anche uno stile di vita che una pensione non avrebbe mai potuto coprire. Avevamo fatto bene il nostro lavoro, quattro volte.</p><p style="text-align: justify;">Dissi addio a Veronica il 10 giugno del 2014, accompagnato dai miei figli e sei nipoti. La mia compagna di avventure e viaggi folli si ammalò improvvisamente. Una notte mi diede un bacio come sempre e la mattina dopo era lì, bella e tranquilla, dalla sua parte del letto. Le promisi di continuare a viaggiare e a fotografare, abitudine che avevamo acquisito di recente. Quando la famiglia se ne andò pochi giorni dopo il funerale, mi sentii stanco, non volevo più fare le valigie. Come se il mio corpo si fosse improvvisamente reso conto di quanti anni stava trasportando. Dopo notti insonni, litigai al telefono con uno dei miei figli. Avevo deciso di tornare dove tutto ebbe inizio, riconciliarmi con quella città che mi vide partire ingrato mezzo secolo fa. Non c'era niente a Lione che mi legasse a restare, tranne forse i pomeriggi di fronte al Rodano ad assaporare la brezza che filtrava tra le foglie degli alberi. O giocare a perdermi in uno dei suoi <i>traboules</i>. Ma tutto questo rimarrebbe nella mia memoria, potrei quindi dire addio alla casa di Lione e alla bicicletta rossa di Veronica. Sentivo che potevo finalmente tornare dove ero nato, visitare la tomba dei miei genitori e fratelli e chiederli perdono per non essere venuto a trovarli prima. I miei figli hanno capito il capriccio del loro vecchio e hanno accettato la sua ultima avventura. Starò a casa dei miei cugini, vicino al mare, dove siamo cresciuti e ora finiremo di invecchiare insieme. Li racconterò ogni giorno quello che i miei occhi hanno visto, spero di avere abbastanza tempo. Sono stato accolto da un cielo terso, un sole imponente e una città diversa. È stato un lungo viaggio, le ho detto, ma sono tornato.</p><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Eduardo Ramon (Milano, 2014) </div>viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-1827050542467723142022-08-23T11:15:00.004+02:002022-08-23T17:00:37.014+02:00L'altro lato del letto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh68uOWFZiZpAQa-kG8yN4rOI2r9E2bBR5WQn1Q0ZWJehCACajZbMlWQQ8mIazrrW-uVBlKouMQNNSLo2fxj4CEN0hqw9UGWdk2i_l68hn29fJ2zbarwIk_GSkd-XxS501DxqGkgMmZyR28mb5ZuRIXIyfB_FabO8tDekywGWtJqAJx31dF7xukX84b/s400/altro-lato-del-letto.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="252" data-original-width="400" height="202" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh68uOWFZiZpAQa-kG8yN4rOI2r9E2bBR5WQn1Q0ZWJehCACajZbMlWQQ8mIazrrW-uVBlKouMQNNSLo2fxj4CEN0hqw9UGWdk2i_l68hn29fJ2zbarwIk_GSkd-XxS501DxqGkgMmZyR28mb5ZuRIXIyfB_FabO8tDekywGWtJqAJx31dF7xukX84b/s320/altro-lato-del-letto.png" width="320" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">È l'ennesima volta che torno a casa tardi per aver ceduto di nuovo alle tentazioni degli amici dopo la partita di calcetto del venerdì sera. Attraverso la sala da pranzo, guidato dallo schermo del cellulare e quando arrivo in cucina svuoto senza difficoltà mezza caraffa d'acqua. Questa routine già ripassata e rivista mi sarebbe servita in passato a sbozzare mentalmente la scusa che mi avrebbe risparmiato dal finire condannato a dormire sul divano. Ma questa volta non voglio impegnarmi, ho deciso di assumermi le conseguenze dei miei errori. Mi spoglio mentre salgo in punta di piedi sulle scale, convinto di sottomettermi alla punizione imminente, un azzardo che tuttavia mi dà un senso di calma mentre apro lentamente la porta della camera da letto. Guardo la forma del suo corpo, coperto sotto le lenzuola dall'altro lato del letto, recupero il pigiama sotto il cuscino e in poco tempo mi ritrovo sdraiato, sbronzo e pentito. Dubito della mia capacità di intrufolarmi inavvertito, quindi presumo che lei sia così arrabbiata, o rassegnata, che non si è nemmeno degnata di girarsi. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Passano i minuti e mi chiedo se vale la pena dire qualcosa di sensato ora o se è meglio aspettare fino al mattino. La mia testa non smette di girarmi, decido di alzarmi ed esiliarmi volontariamente nel mio angolo di punizione per passare lì quel che resta della notte. Mi siedo sul blando divano del soggiorno, che nei suoi anni frenetici fu complice di infinite ore di svago e in tanti altri silenzioso testimone di esplosioni carnali, quando con mia moglie assaporammo spontaneamente i mieli del piacere. Questi ricordi vengono improvvisamente interrotti perché sento che c'è qualcuno che sta inserendo una chiave nella serratura della porta d'ingresso.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Mi metto subito in piedi, le mie braccia sono tese, il cuore è a punto di scoppiare, la sbornia è già una cosa del passato. Afferro una statuetta in marmo di David, regalo di mia suocera. Trattengo la voglia di urlare, mi preparo al peggio mentre la maniglia inizia a girare. Sto per sferrare un colpo deciso, secco, emulando l'eroe epico che ho tra le mani, ma mi fermo nel momento preciso in cui riconosco gli occhi terrorizzati di mia moglie quando mi vede pronto ad attaccarla. Il mio corpo si indebolisce improvvisamente, un brivido annuncia che sto per svenire e se non fosse stato per il suo tenero abbraccio sarei finito per crollare a terra accanto il David. Avevo completamente dimenticato che lei era via per lavoro. Sono un idiota, stavo per commettere un crimine orribile! Due secondi dopo queste riflessioni, nell'ultimo respiro e prima di perdere la testa per sempre, mi chiedo chi, o cosa, giace ancora sul letto della nostra stanza.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Eduardo Ramon (Amsterdam, 2017)</div>viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-20918957476845699242022-08-19T18:47:00.000+02:002022-08-19T18:47:53.293+02:00Déjà vu<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNwBtUFvnttprQSkEWLgBpgYoiy0HaNW7jxJB3TosO0qnJvxemRMsw6hrsfGl7VnHhy13FB-_yviZR06uyzUpUb9bu1vfZY7-JIoFR6CR7o_HR_VhhsWwkgJU0ECvSLMVfsCFeY8XpdN11Dpx8K2l_U9yhWmOGJW0px2QnKMb3vLqVkCRiW2nC47OI/s1200/dejavu.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="630" data-original-width="1200" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNwBtUFvnttprQSkEWLgBpgYoiy0HaNW7jxJB3TosO0qnJvxemRMsw6hrsfGl7VnHhy13FB-_yviZR06uyzUpUb9bu1vfZY7-JIoFR6CR7o_HR_VhhsWwkgJU0ECvSLMVfsCFeY8XpdN11Dpx8K2l_U9yhWmOGJW0px2QnKMb3vLqVkCRiW2nC47OI/s320/dejavu.jpg" width="320" /></a></div><p style="text-align: justify;">L'uomo che seguo con attenzione non si ferma un minuto e continua a camminare a passo spedito. Sono a una quarantina di metri dietro di lui, a volte guarda in entrambe le direzioni, come se fosse un tic nervoso. Tiene le mani in tasca, forse è il freddo tenue dell'inverno quasi spento o forse si nasconde lì il motivo per cui lo seguo.</p><p style="text-align: justify;">Non perdo di vista il mio obiettivo, a furia tanto guardarlo posso prevederne i movimenti. Cammina in modo strano, come se le sue scarpe lo infastidissero ed evitasse l'attrito con i talloni ad ogni passo. La sua mania di guardare ai lati ha cominciato a infastidirmi, così decido di calmarmi accendendo l'ultima sigaretta, mentre proseguiamo lungo l'enorme e trafficato viale.</p><p style="text-align: justify;">Nei cinque secondi che mi ci sono voluti per accendere la sigaretta, due soggetti mi hanno superato su entrambi i lati e mi ci sono voluti altri cinque secondi per capire che stavano cercando lo stesso uomo. La mia curiosità si trasforma in preoccupazione, e la preoccupazione si trasforma in terrore mentre accelerano il passo mentre la loro preda gira per una strada. Per un attimo li perdo di vista, non posso più simulare e affretto la marcia. Loro sono troppo vicini e io sono troppo lontano. Uno dei soggetti si separa dall'altro e attraversa la strada. Mi distraggo e quando guardo indietro è già tardi: quello che non ha attraversato la strada ha estratto una pistola dal cappotto e ha allungato il braccio puntandolo verso la testa dell'individuo che stava seguendo e che ormai conosco. So che non si guarderai mai indietro.</p><p style="text-align: justify;">Il colpo del proiettile risuona per tutta la strada e il poveraccio cade a faccia in giù sul marciapiede. Maledetti! La gente inizia a urlare e correre, i due uomini scompaiono rapidamente dalla scena. Io sono l'unico che, invece di indietreggiare, si avvicina alla figura immobile del disgraziato, che affoga i suoi ultimi respiri nel proprio sangue. Durante il breve tratto, incrocio lo sguardo con una giovane ragazza che ha l’espressione di avermi già visto. Mi passa accanto, sfiorando leggermente la sua mano sinistra con la mia. Raggiungo la vittima, che giace distesa in una pozza scarlatta. Quasi senza pensare, gli afferro la spalla e lo giro verso di me. È allora che le mie ginocchia cadono pesanti sul selciato, rompendosi con il resto del mio corpo, scoprendo che l'uomo che hanno ucciso sono io.</p><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Eduardo Ramon (Milano, 2015)</div>viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-32524276563076002302022-08-19T15:36:00.001+02:002022-08-19T15:36:41.479+02:00Camera a gas<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOXAOv7XKkG-pJihPjCIUfp2q191NV64WmYAeA6X5Jxd2wj7ffINgZUzTB4EJzZCZKvGLIMqHkhaQKWvx6XQZI1EpH41oCV5w1dt_Pv7J0EKYT-0quds4rNqnhtwrUzNTsdn514Uprk4psRSQUtdQK-dsTyun6OPQc4Z_WeuwiuHgjPss6GPjaGp-U/s400/camaradegas.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOXAOv7XKkG-pJihPjCIUfp2q191NV64WmYAeA6X5Jxd2wj7ffINgZUzTB4EJzZCZKvGLIMqHkhaQKWvx6XQZI1EpH41oCV5w1dt_Pv7J0EKYT-0quds4rNqnhtwrUzNTsdn514Uprk4psRSQUtdQK-dsTyun6OPQc4Z_WeuwiuHgjPss6GPjaGp-U/s320/camaradegas.jpg" width="320" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Tutto cominciò un martedì mattina con un semplice fastidio al collo. Elena diede la colpa al suo cuscino, che non aveva più la forma ergonomica di prima. Due giorni dopo, tuttavia, trovò dei lividi e graffi su diverse parti del suo corpo sempre più dolorante. Quando il medico le spiegò che poteva trattarsi di sonnambulismo, lei rifiutò l'idea di prendere appuntamento dallo psicologo e di monitorare le sue funzioni vitali durante il sonno.</p><p style="text-align: justify;">Non beveva, non fumava, aveva sempre fatto attenzione a ciò che mangiava e da quando frequentava l'università andava in palestra, sembrava strano che le stesse capitando un disturbo del genere. La paura di dover stravolgere la sua routine le fece annullare la prossima visita programmata dallo specialista. Chiese alla sua migliore amica di trascorrere la notte insieme, osservando i suoi movimenti. Lei arrivò il venerdì con il computer carico di film, pronta per rimanere sveglia. Entrambi aprirono gli occhi il giorno dopo alle nove. L'amica non ricordava quando si era addormentata, il computer era ancora sulle sue gambe con la batteria completamente scarica, segno che era stato acceso tutta la notte. Elena non notò nessun nuovo livido sul corpo, il che la sollevò. Probabilmente stare in compagnia le aveva permesso di riposare bene. Mentre stava preparando la colazione, sentì l'urlo della sua amica provenire dal bagno. Corse immediatamente a vedere cosa stava succedendo e la trovò impallidita davanti allo specchio, indicando col dito qualcosa sul suo petto. Il primo bottone che chiudeva la scollatura del suo pigiama era stato strappato via e in quello spazio esposto della pelle c'era una piccola ferita rossastra, come se fosse stata fatta con un oggetto affilato. Chiamò immediatamente il suo medico e descrisse con nervosismo cosa era successo. Lui insistette che l'evento confermava un disturbo del sonno in fase di sviluppo e che era necessario iniziare le cure quanto prima.</p><p style="text-align: justify;">Nonostante perquisirono l'intero appartamento, il bottone del pigiama non fu mai trovato. Nel pomeriggio, Elena salutò la sua amica che non riusciva ancora a superare lo spavento, e si vergognò di chiederle di passare con lei un'altra notte. Si sentiva angosciata, non riusciva a credere di essere capace di fare del male agli altri né a se stessa. Chiamò i sui genitori, che vivevano a circa tre ore da casa sua, per raccontare quello che era successo negli ultimi giorni. Fino a quel momento aveva nascosto il problema ma non poteva più tacere. La rassicurarono dicendo che sarebbero arrivati la mattina dopo per stare con lei e accompagnarla in ospedale. Doveva solo mantenere la calma ed essere paziente per qualche ora in più. </p><p style="text-align: justify;">Poiché l'esperimento della scorsa notte era fallito, prima di addormentarsi le venne in mente di lasciare il computer acceso con la telecamera puntata verso il suo letto. Era determinata a scoprire una volta per tutte cosa stava facendo inconsciamente. La notte procedeva e gli occhi di Elena si chiudevano, sfiniti. La piccola luce LED della telecamera tagliava leggermente l'oscurità della stanza. Poco dopo mezzanotte, il condizionatore si accese automaticamente, rilasciando un gas nocivo. In pochi secondi l'aria nella stanza divenne stantia ed Elena svenne sotto le lenzuola, al punto da sembrare un cadavere. Lentamente, la porta della camera da letto iniziò ad aprirsi, facendo uno scricchiolio quasi impercettibile. La telecamera, sempre imperturbabile, assistette all'irruzione di due figure scheletriche sul palco poco illuminato. Niente ruppe la calma in quell'ambiente, nemmeno quando spogliarono Elena e le passarono ripetutamente le loro unghie decomposte sul corpo inerte, in una specie di rituale perverso. Quella telecamera impassibile fu lasciata accesa abbastanza a lungo da vedere più di una persona perdere la ragione il giorno successivo, quando scoprirono cosa avevano fatto quelle creature con Elena, nella sesta e ultima delle loro visite.</p><p style="text-align: justify;"><br /></p><p style="text-align: justify;">Eduardo Ramon (Roma, 2014)</p>viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-57049536260832509302017-08-21T15:43:00.003+02:002017-08-21T15:43:59.252+02:00Jet lag<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguwu8k1rQ7rn-2vEL2esIM5qOMp0HUBo8jWHlZ1GQ191eWQe56ybbEACaIuyiFj2fb9_adUuYmQvEwv867LrQDPKywooeYinIIVvpteWTtJx63XOE_TqX0u_5nz-sHZjrRL2UMAroDH3Q/s320/jet-lag.png" width="320" /></div>
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In una relazione a distanza il meglio che si possa fare, prima ancora che confidare nell’amore, è confidare nella fortuna, come un soldato giovane e inesperto che spera di tornare vivo dalla guerra per poter baciare ancora la sua fidanzata.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Tutte le città hanno un odore particolare e per Santiago, Milano era impregnata di un forte aroma di caffé. Non avrebbe mai scordato la prima volta che ordinò un caffè in un bar del centro; era convinto che gli avrebbero servito una sostanziosa dosi di caffeina in un bicchiere reciclabile ma invece gli porsero una minuscola tazzina di porcellana che gli fece immediatamente ricordare di quando sua sorella giocava con la casetta delle bambole. Tanto che non resistette e scoppiò in una fragorosa risata davanti allo sguardo sconcertato del barista che probabilmente da lì iniziò a odiarlo. Dopo questo episodio, senza rendersi conto, il tempo in questa città diventò “espresso”, dai giorni nei quali rincoreva inutilmente i vecchi tram color arancione, che sembravano prendersi gioco del suo costante ritardo, fino alle telefonate intercontinentali, che ogni settimana duravano sempre meno.</div>
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Il giorno in cui Santiago si ammalò due volte, iniziò il conto alla rovescia per tornare a casa. Dal cielo ribelle di Milano, la settimana precedente, si era scatenata una pioggia torrenziale che lo aveva inzuppato fino alle mutande, facendogli venire una terribile influenza. La tanto sperata telefonata che avrebbe potuto curare lo sconforto di trovarsi a letto da solo, mentre cercava di riprendersi dalla febbre della notte, non arrivò mai. E quando lui, dopo aver messo da parte l’orgoglio, digitò i dodoci numeri nella giusta sequenza, ma probabilmente nel momento sbagliato, il telefono squillò a vuoto. Sì sentì quindi ancora più ammalato, al mal di testa delirante dovuto alla febbre si aggiunse uno strano dolore al torace, come quando il cuore sembra uscirti fuori dal petto prima di un esame importante. Cervello e cuore, ragione e sentimento, due comandanti nella nostra vita che si danno costantemente il cambio o collaborano per potarci sui sentieri che a loro sembrano essere quelli giusti. Se entrambi sono fuori uso, allora sei fregato il doppio. Santiago pensó che forse il fuso orario, crudele costante nella formula del successo (o fallimento) di qualsiasi amore che si voglia mantenere a distanza, poteva essere il motivo per il quale non aveva ricevuto risposta. Tuttavia i quaranta gradi di temperatura gli servirono per arrivare rapidamente a una conclusione: a volte l’amore non reagisce al jet lag e rimane sempre indietro, fino a quando inevitabilmente si perde del tutto.</div>
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Si ricordava perfettamente della prima e ultima volta che si erano visti, risaliva a un anno prima quando lui ancora non era un tipo “espresso”, a meno non che lo sapesse. La ragazza italiana dallo spagnolo perfetto si ricordò anche del tema che rimase in sospeso. “<i>Siamo l’ultima generazione romantica!</i>” – dissero quasi allo stesso tempo e si misero a ridere. Lei lo osservava attentamente con i suoi meravigliosi occhi verdi, nonostante fosse ancora un po’ indecisa se Santiago fosse più un soggetto strano o interessante. La conversazine non duró nè poco nè tanto, duró il tempo sufficiente, come direbbe un vecchio amico che forse si riferiva ai suoi problemi a letto con sua moglie. Santiago la salutò come si saluta una persona che si stima, dandole due baci sulle guance, gesto che lei apprezzò. Milano è, se si vuole, una città piccola. Camminó per dieci minuti fino ad arrivare al Naviglio Grande, uno de suoi posti preferiti. Entrò in un bar, si sedette a un tavolino fuori dal locale e, con lo sguardo fisso nelle acque dello storico canale, sorrise rendendosi conto che questa volta il suo caffè non sapeva più di tristezza.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-38448951059943453112017-08-21T15:41:00.002+02:002017-08-21T15:41:23.235+02:00Un giorno in meno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKD1EW3NTltRZz9G9a94aU3VEDSXHQsNPN6ARYmS8_N6O6vKdkA95EDKu7QVBIquHzTz8eKeuFeuGafew0PypZNk7k24NQY2sUHKUYLDan4j2QhiM0Gi9WiQQrJHn9VJlqILQ_uGp3vug/s320/un-giorno-in-meno.png" width="320" /></div>
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La routine era quella triste malattia che contagiava inevitabilmente chi va a lavorare nell’Ufficio di Contabilità della FuelDiscover, la prima società petrolifera del paese. Da buon gigante corporativo, aveva le tasche piene di soldi, cosa che attirava gente disposta a far solide radici sulla proprie sedie fino a ricevere il tanto agognato assegno di pensionamento.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Alfonso entró con questa stessa intenzione, di fatto, quando venne assunto festeggiò per due giorni di seguito come se avesse ottenuto una sorta di assicurazione per una lunga vita ricca di tranquillità e comodità. Sapeva che le preoccupazioni per le vacanze estive e per i regali di Natale non si sarebbero più ripetute, che gli agenti bancari non gli avrebbero più negato una carta di credito e poiché l’edificio si trovava nel centro finanziario della città, la probabilità di conoscere una segretaria gnocca (sua fantasia fissa da tutta la vita) sarebbero aumentate esponenzialmente. Con il passare degli anni si abituó a mangiare ai migliori buffet e a passeggiare per i centri commerciali durante la pausa pranzo, portandosi dappertutto il badge con le sue credenziali d’impiegato orgogliosamente attaccati al colletto della camicia, che quasi mai stava bene con la sua cravatta. “<i>Trovati una donna per farti aiutare!</i>” gli aveva detto il suo capo, piegato in due dalle risate quando una volta entró in una riunione indossando una combinazione di colori impresentabili, battuta che prese così seriamente che per mesi si vestì solo di nero, vestito e cravatta, e camicia bianca, ragione per la quale i suoi colleghi cominciarono a chiamarlo “<i>Il bodyguard</i>”. Cosa che non lo toccò particolarmente visto che, grazie al nuovo outfit, era riuscito a concludere con un paio di segretarie di altri dipartimenti all’interno dell’edificio, iniziativa che prima del cambiamento non era invece mai andata a buon fine.</div>
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Nessuno è mai soddisfatto di quello che ha e se riusciamo a appagare un bisogno sicuramente troveremo un'altra questione della quale occuparci. Alfonso si toglieva vari sfizi, incluso pagare per il privé delle discoteche, liquori costosi e centri massaggi di dubbia reputazione. Qualcosa però non lo convinceva del tutto, si sentiva assente, vuoto, una sensazione difficile da spiegare a parole. Gli amici gli dicevano che non doveva spaventarsi e che cercasse il modo per rilassarsi. Coscente che più relax di andare in vita quattro volte alla settimana non era possibile, decise di provare in altro modo. Non aveva mai fumato una canna e pensò che magari poteva essere utile per liberare un poco la mente. Durante la festa di compleanno del suo miglior amico Ricardo, un amante impenitente dell’erba, decise di mettersi all’opera. Passata la mezzanotte le poche persone che rimasero in casa si accomodarono nella sala, Ricardo abbasó il volume della radio e cominciò a rollare attentamente una canna artigianale. Quando fu il suo turno, Alfonso prese il cilindro di carta e lo passó al tipo che era di fianco a lui e si mise comodo sul divano per ascoltare gli altri, mentre il fumo faceva silenziosamente il suo lavoro nella sala. I minuti si susseguivano lenti, impossible sapere quanti. All’improvviso il tipo che gli stava vicino si girò verso di lui, lo guardò negli occhi e gli disse: “<i>Tu hai qualcosa vero?</i>”. Cercando di evitare la conversazione, Alfonso rispose: “<i>Tutti abbiamo qualcosa</i>”. Senza togliergli gli occhi di dosso, il soggetto insistette: “<i>Tranquillo amico, non devi arrabbiarti, solo goditi il momento</i>”. Alfonso pensó che il tipo dopo due tiri si fosse trasformato in un hippy senza né arte né parte, decise quindi si alzarsi, recuperare le sue cose e tornare a casa. Mentre salutava, lo stesso tizio gli fece un gesto, come a significare che voleva condividere un segreto con lui: “<i>Come cambierebbero le nostre vite se al posto di sommare i giorni che passiamo su questa terra sottraessimo i giorni che ci restano da vivere?</i>”.</div>
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La mattina dopo Alfonso arrivó in ufficio con la stessa sensazione pesante sul petto dei giorni precedenti. Accese il computer e si guardò attorno: le stesse pareti, lo stesso odore, gli stessi colleghi, le stesse voci, le solite battute. Sentì che stava morendo in quel posto giorno dopo giorno e gli tornò alla mente l’ultima frase che gli avevano detto la sera prima. Un calore iniziò a salire dai piedi, si allentò la cravatta inutilmente, si tolse la giacca del vestito e si alzò in piedi. Senza dire niente a nessuno, uscì dall’ufficio. Scendere quindici piani a piedi non gli era mai sembrato così facile come in quel momento. Piano piano iniziò a liberarsi della cravatta, della cintura, fino a quando anche le segretarie gnocche lo videro dalla finestra mentre si toglieva la camicia. Alfonso corse per tutto il viale fino ad arrivare al mare. Lo guardò e sorrise, lanciando per aria i pantaloni, l’ultimo capo che gli mancava. La gente che vide la scena quel pomeriggio pensó che un povero impiegato era diventato pazzo. In realtà videro un uomo finalmente libero.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-12953929867820667232017-08-21T15:37:00.003+02:002017-08-21T15:37:49.655+02:00Il figlio dei vicini<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjP3Tb1C39Zmh3v_eSldqXvlj2KtsoXjHdkx6PS64HH8q2FJGSf4ld3UcyeDXTOGGsKDUjqZiUTccqlHC62pQ9ytqQaI3zvWNndM4-YA5FaLVkxboBJE1gyJzT6AnalaOvBwxXG3Gd4deM/s320/il-figlio-dei-vicini.png" width="320" /></div>
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Se la vita fosse una serie di percorsi già determinati, probabilmente ci saremmo estinti già da un pezzo. A chi si è mai domandato il perché delle cose, dobbiamo ciò che abbiamo ed esistiamo oggi giorno perché, per quanto insignificante possa sembrare un cambiamento, uscire dal prestabilito rappresenta di per sé un traguardo.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Quando arrivarono in campagna, la bimba iniziò a piangere. Durante le dodici ore di viaggio in autobus aveva sognato la sua nuova casa nella capitale, vedendo le macchine moderne passare di fronte alla sua finestra, riposando nel suo letto pieno di peluches come aveva visto in televisione. Invece quello che si trovò davanti agli occhi fu un quadrato di terra spianata delimitata da arbusti nel mezzo del nulla. Non c’erano né strade né auto che passavano per quella specie di bosco spoglio e incolto. Guillermo evitava a tutti i costi le promesse; suo padre era solito dirgli che se regalassimo un dollaro per ogni promessa non mantenuta, saremmo tutti in bancarotta. Ad ogni modo, prese in braccio la sconsolata bambina e le diede un bacio, promettendole che in tre mesi la casa sarebbe stata pronta. Sua moglie, nonostante seguisse la scena da vicino, continuava ad allattare in silenzio il piccolo Pablo che, tranquillo, afferrava con forza il bordo della camicetta della madre.</div>
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Non furono tre mesi, bensì tre anni, il tempo che Guillermo impiegò a costruire la casa. In quel periodo arrivarono sempre più famiglie provenienti da tutte le regioni del paese e tutte con le stesse paure e speranze. Le mani, delle quali c’era un gran bisogno, lavorarono volonterosamente per dar forma, senza alcuna esperienza o allenamento, a quel pezzetto di valle inesplorato che anni più tardi sarebbe diventato uno dei distretti più popolati della città. L’inaugurazione di una casa era sempre un buon motivo per celebrare e in queste feste di quartiere non mancavano mai casse di birra e la musica provinciale che conmuoveva anche i più duri. La bambina si divertì ballando con tutti, era molto felice con la sua finestra senza vista sulla strada e con il letto senza peluches. La promessa mantenuta di suo padre era l’unica cosa che le importava.</div>
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Seppur organizzarono ronde di vigilaza per proteggersi dai trafficanti e dai mercenari, una sera arrivarono cento uomini in uniforme disposti a distruggere tutto e a farli sloggiare. Dietro la muraglia della polizia si trovava un avvocato timoroso che reggeva dei fogli e sosteneva che tutta l’area era proprietà privata e che gli invasori non avevano alternativa se non quella di andarsene. Davanti a tanto gergo legale e parole che sembravano spagnolo, ma che non avevano nessun significato per loro, gli abitanti, tra cui Guillermo, risposero con grida e mostrando bastoni e pietre che sarebbero stati disposti a utilizzare al fine di difendere il loro territorio. L’atmosfera divvenne tesa, nessuno osava fare il primo passo, nessuno voleva negoziare fino a quando una pietra cadde sul casco blu di uno dei poliziotti che accompagnava l’avvocato timoroso, che quasi svenne dall’impressione. Dopo, tutto acade nel giro di secondi. La poca luce lasciava vedere nel mezzo della spessa coltre di polvere, uomini che lottavano per difendere le proprie convinzioni. Rami e ossa si spezzavano sotto i colpi secchi e facevano presumere che quella notte sarebbe finita in tragedia. All’improvviso si sentì uno sparo il cui eco sordo interuppe il clamore della moltitudine furente e dei cani che abbaiavano agitati, facendo sì che le auto della polizia si ritirassero. Ancora stordita e nervosa, la gente iniziò a correre verso tutte le direzioni, il lamento dei feriti era il triste epilogo di quella notte che nessuno si aspettava. La mattina dopo la stampa definì come “carneficina” l’intervento, cosa che fece sì che le future battaglie si combattessero in tribunale e per molti anni a seguire. Con il passar del tempo quelle strade fondate con lo sforzo e il sudore, vennero battezzate e numerate formalmente, le vie si coprirono di asfalto fresco e videro passare le prime auto.</div>
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Pablo stappò la prima bottiglia e bagnò con la birra sua madre e sua sorella che festeggiavano con applausi insieme agli altri vicini. Il quarto piano era finalmente pronto per dare un caldo alloggio ai tre gemellini che stavano per nascere. Era ormai lontano il giorno in cui trovarono il loro padre sporco di polvere e steso dietro un albero, tranquillo, come se stesse sognando un futuro che aveva già programmato.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-15542184867341468572017-08-21T15:35:00.001+02:002017-08-21T15:35:19.370+02:00MILF<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0dYOd7IqRwYUWAreFzQoW4jAHOwsLie8de59als-eFvzYixCQgQjOUEY9F5PWyQL9lL6h9l3ddR4CyMNU2QAja-Grh2GdJRaYU_oagfyQxf7joGKBxkY1ds5_J8Puii0R3Ifw6k12ctY/s320/milf.png" width="320" /></div>
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Odiavo il mio lavoro, o meglio, odiavo il mio capo. Già doverlo chiamare così m’irritava, mi dava un leggero disgusto come quando si dice una di quelle parole che sono quasi taboo, che si possono dire solo a voce bassa e sono permesse solo in alcuni contesti speciali o le possono pronunciare solo alcune persone strane tipo i medici. Perché bisogna essere proprio bizzarri per poter dire o sentire termini come “diarrea” senza fare una piega e ancor peggio interessandosi della questione.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Ci fu in passato un periodo nel quale andavamo d’accordo, addirittura fece in modo che mi dessero un aumento di stipendio dopo soli sei mesi di assunzione nell’azienda. Non so esattamente il momento, però il suo comportamento nei miei confronti divenne improvvisamente ostile. Aveva un’osservazione su tutto ciò che facevo, dal mio orario di arrivo al lavoro (ammetto la mia cattiva abitudine di arrivare sempre tardi) fino alle virgole nei miei articoli. Quando mi disse per l’ennesima volta che la mancanza di virgole nel mio testo poteva confondere il lettore, avrei dovuto rispondergli un elegente “<i>Ma sai dove te le metto le virgole…?!</i>”, ma mi contenni per rispetto alla sua età. Inutile cercare di spiegare a un tizio di quasi cinquan’anni, che in una pubblicazione web, tutto deve essere fluido senza approfondire troppo, perché la gente oggi cerca un’informazione rapida e completa, soprattutto nelle notizie sportive. A nessuno fregava niente di vedere due virgole in meno se l’informazione chiave era che il goleador del campionato si era fatto male. Probabilmente il vecchio aveva ragione, ma visto che continuò a rompermi, io, ovviamente, continuai a odiarlo.</div>
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A uno di quei cervelloni delle Risorse Umane un bel giorno venne in mente di migliorare i rapporti all’interno della società promuovendo l’organizzazione della grigliata semestrale per ogni dipartimento. Nessuno di noi ebbe il coraggio di spiegare che nella Redazione sportiva eravamo sette uomini e una donna, e che se c’era qualche problema tra di noi lo risolvevamo la sera stessa con un paio di birrette nel bar vicino. Non esistevano né drammi né malelingue, anzi eravamo una squadra di persone tranquille che lavoravano insieme da anni, senza lode né infamia. Quello che non avevamo in bellezza lo guadagnavano con l’impegno, aveva detto saggiamente un collega. In effetti, tra tanti panzoni l’unica cosa che ci dava un po’ di estetica era la nostra talentuosa collega Francesca, che alla fine era una specie di Bianca Neve con i suoi sette nani. Il capo era Brontolo, senza dubbio. Ad ogni modo l’ordine arrivò direttamente dalla dirigenza e Brontolo non potè fare a meno di organizzare una grigliata a casa sua. Con la solita gentilezza, mi chiese di anticipare un paio di articoli che dovevo preparare per lo speciale sul Mondiale di calcio dato che nel week end saremmo stati impegnati con l’uscita della confraternità. Se all’inizio avevo pensato di non partecipare in segno di protesta, dopo essermi calmato, una malefica lucidità mi fece pensare che forse avrei potuto lasciare un pregevole souvenir in casa del capo, d'altronde si sa, un bagno intasato capita a tutti.</div>
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Quel sabato arrivai tardi, e dopo aver subito le più che fondate batture dei miei colleghi per il mio proverbiale ritardo, domandai dove fosse il bagno, disposto a non perdere tempo nel mettere in pratica il mio daibolico piano. Un sacchetto pieno di terra era adagiato insospettabilmente nella tasca sinista del mio pantalone, aspettando pazientemente il momento giusto per entrare all’opera. Quando stavo attraversando la sala fino al bagno mi scontrai con una bellissima bionda intorno ai quarant’anni che teneva per mano un bambino di circa otto anni. Mi sorrise amabilmente, presentandosi come Mariana, niente meno che la moglie del capo. Tutte le parole e i complimenti che volevo farle si bloccarono in gola, e mentre cercavo inutilmente di sorridere, uscivano dalla mia bocca disordinati e incoerenti come squllidi proiettili sparati in aria a caso. Lei fece finta di niente e mi chiese se la potevo presentare al resto del gruppo. Come mi succede quando sono nervoso, tirai fuori il portachiavi dalla tasca destra e comincia a lanciarlo da una mano all’altra. All’improvviso apparve il capo che era stato in cucina fino ad allora, mi diede una bella manata sulla spalla e con mia gran sorpresa disse a sua moglie che io ero proprio “<i>un bravo ragazzo</i>”. Ci fecero accomodare al tavolo e quando lei mi passò vicino, sentii il suo profumo che scatenò in me un caos ormonale completo. Sinceramente non so come sarebbe finita quella notte, forse facendo amicizia con il mio capo, raccontando le mie migliori barzellette sempre e solo per vedere la sua bella moglie sorridere, flirtando un poco come con Bianca Neve, ubriacandomi con i colleghi oppure tutte queste cose insieme. Ad ogni modo, non lo saprò mai perché camminando verso il giardino dopo aver mangiato, iniziai a lasciare involontariamente dietro di me una scia di terra che usciva dal sacchetto della mia tasca sinistra che si era bucata con le chiavi che avevo messo nel posto sbagliato. Tutti se ne accorsero e io, con le parole bloccate ancora una volta dal mio mezzo sorriso, non trovai la battuta giusta per tirarmi fuori dall’imbarazzo.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-15875627253932102342017-08-21T15:32:00.001+02:002017-08-21T15:32:04.178+02:00La telefonata<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgaokmCDgAeUY0JAjZENc_uMN217nGkSlI8qODZnmfxnS04Z3GP1pjkTsxZi3FpuIAcJZEObuuksVVmy6iyjY8TSINjbOOCta_-9WK_thOsbuv1oUPy24UYorcs24WXbErcfAViKs5diPs/s320/la-telefonata.png" width="320" /></div>
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Delle quattordici chiavi che lo rendevano la persona meno silenziosa dell’edificio, Luca sapeva a occhi chiusi quale fosse quella dell’ufficio del manager. Ciò che amava di quel luogo al trentesimo piano erano le enormi vetrate dalle quali si poteva godere di una vista panoramica su tutta la città, e il fatto di poter leggere tranquillamente il giornale spaparanzato sulla sedia reclinabile di cuoio ogni sabato che faceva le pulizie.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Da circa due settimane però l’evasione del sabato mattina per la quale si concedeva di leggere il quotidiano seduto sulla comoda sedia del manager, era stata rimpiazzata dal freddo rimirare lo schermo del suo cellulare, dove scorrevano foto che lui analizzava riflessivo, e da vecchi messaggi di testo che lo riportavano ai bei tempi passati, epoca felice ma sempre più lontana. Ripassava con nostalgia e con una rilettura quasi ossessiva ogni parola di quei messaggi. Una strana forza – o la mancanza della stessa - gli impediva di cancellarli nonostante sapesse che forse così si sarebbe finalmente levato quel peso dal petto che spesso nella notte non lo faceva dormire. Uno di quei sabati mentre il suo sguardo vagava sul piccolo monitor, qualcosa lo interruppe: il telefono della segretaria cominciò a squillare. Non aveva l’obbligo di rispondere, nessuno lavorava quel giorno tranne lui. Però l’instancabile apparato continuò a suonare.</div>
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<div style="text-align: justify;">
- Pronto?</div>
<div style="text-align: justify;">
- Buon giorno, Ospedale del Centro?</div>
<div style="text-align: justify;">
- No, ha sbagliato numero.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Chi parla?</div>
<div style="text-align: justify;">
- Ha chiamato la Textiles Ribson.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Mi scusi, grazie lo stesso.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Non si preoccupi, le auguro un buon…</div>
<div style="text-align: justify;">
- Mi chiamo Sandra.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Mi scusi? –domandò Luca guardando l’auricolare, pensando che si trattasse di uno dei tanti scherzi che gli avevano fatto in passato.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Deve perdonarmi, ma forse potrebbe fare qualcosa per me…</div>
<div style="text-align: justify;">
- Non capisco, guardi che ha sbagliato numero.</div>
<div style="text-align: justify;">
- Sì ma devo dirle qualcosa, per favore non riagganci. Mi chiamo Sandra e sono una madre che ha perso suo figlio. Se un giorno vedesse per la strada un ragazzino di quindici anni, alto, timido, con i capelli crespi e gli occhi nocciola, si avvicini e gli chieda se si chiama Santiago. E lo convinca a tornare a casa…</div>
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Luca ascoltava ancora sconcertato. Si lasciò cadere sulla sedia della segretaria e sospirò guardando il soffitto, pensando bene a quello che stava per dire.</div>
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-Mi dispiace molto signora, immagino quanto sia difficile vivere una tragedia come questa. Ma le chiedo di fermarsi un attimo a riflettere: cosa le piacerebbe dire a suo figlio Santiago ora, a parte che lo sta cercando? Forse che continua ad ascoltare la sua musica preferita, o che si sveglia tardi la domenica o che ancora prepara quel dolce che tanto gli piace. Quando arriverà il momento in cui vi ritroverete, perché sicuramente succederà, saprà allora che il modo migliore di aspettarlo fu continuando a vivere. Un ricordo, anche se brutto, ci dice che siamo vivi perché possiamo sentirlo. L’oblio invece è crudele ed è il vuoto mortale.</div>
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Lo disse con un tono onesto, diretto e ispirato, come se stesse parlando a se stesso. Dall’altra parte del telefono si sentiva un respiro calmo, rilassato. La donna sembrò sussurrare una frase e riattaccò. Per un po’ Luca rimase attaccato al telefono senza poter credere a ciò che aveva appena fatto. Di certo c’era che quel giorno due sconosciuti si erano salvati la vita.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-38042277436686332772017-08-21T15:29:00.002+02:002017-08-21T15:29:47.862+02:00Una vita normale<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKpPXWtzk-FYlpvGweSpwU0gqC6POeVscriRpyTnsvIvX21-IBsSmxLvWb2RWoDw85vC8nT3qdNDH1Wr4vGJZdXKemnwl9vEk8leFOAl7t91PDxnkVc9evVw_2CYlXesOPtQSAxuHdcx8/s320/una-vita-normale.png" width="320" /></div>
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Avevo ricevuto la telefonata che aspettavo. Dopo dieci anni fuori dal paese, Antonio “Il Diamante” Garzón avrebbe fatto un unico concerto a stadio pieno e io sarei stato il solo giornalista ad avere l’onore d’intervistarlo nel suo camerino prima di andare in scena. Il suo manager mi disse che mi avrebbe inviato per mail i dettagli e le condizioni dell’incontro. Di colpo diventai il più invidiato dai miei colleghi e il preferito del capo.</div>
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Non era un buon periodo per la rivista nella quale lavoravo e la dirigenza sperava che l’esclusiva con Il Diamante avrebbe significato un recupero nelle vendite. Una delle condizioni era che io avrei dovuto essere l’unico presente durante la permanenza perciò, nella settimana anteriore, dovetti arrivare prima in ufficio per frequentare un corso lampo di fotografia. Quella stessa settimana la passai leggendo articoli e vedendo video di Garzón. Non volevo ripetere domande che già gli avevano fatto, ma riuscire a farmi dare qualche aneddoto inedito o confessione, una frase polemica di quelle che vanno direttamente in copertina. Il tipo era un fenomeno della musica romantica e in vent’anni di carriera artistica aveva ricevuto tutti i premi più importanti, cantato per presidenti e recitato in film. Nonostante io sembrassi più vecchio, avevamo quasi la stessa età, con la gran differenza che i miei vent’anni di carriera io li avevo passati indebitato e scrivendo articoli di scarso interesse per la stessa casa editrice. I migliori successi per me erano stati i miei tre figli, il mio matrimonio e un premio giornalistico per l’indagine politica che provocó la sostituzione di un paio di ministri nel governo precedente. Mai ero stato in Australia o avevo passato un’estate in Tailandia, e men che meno sedotto modelle polacche quindici anni più giovani di me, cose che certamente aveva fatto molte volte Garzón.</div>
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Quando arrivò il giorno dell’intervista, mi presentai tre ore prima allo stadio indossando una camicia nuova per la quale mi costò pagare fin troppo, ma pensai che ne sarebbe valsa la pena in caso fossi riuscito a fare una foto con il famoso personaggio. Se fossi apparso nella pagina principale della rivista avrei potuto anche tirarmela con gli amici. L’unico problema era che non sapevo chi avrebbe potuto scattarci quella foto. Il camerino si trovava in una delle tribune dove avevano montato la scenografia e si potevano sentire le urla della gente che stava arrivando. Quando mancava ormai solo un’ora all’inizio del concerto, uno degli incaricati mi disse che Il Diamante stava per arrivare e che aveva venti minuti cronometrati per realizzare l’intervista. Riguardai il mio quadernino degli appunti, disegnai segni inutili e orribili scarabocchi di animaletti sui bordi dei fogli. Quando fece la sua apparizione Antonio Garzón, mi abbracciò come un vecchio conoscente e mi chiese il mio nome, dicendomi che da lì in poi avrei dovuto chiamarlo solo "<i>Tony</i>" e se avessi il piacere di bere un po’ di whisky. Era più alto di quello che pensassi e il suo vestito esageratamente elegante faceva impallidire la mia camicia che tanto mi era costata. Si muoveva tranquillamente per la stanza come se la conoscesse da sempre. Nel frattempo io lo seguivo con lo sguardo, domandandomi come e quando iniziare perché i minuti intanto passavano. Finalmente Tony si lasciò cadere sul divano e propose un brindisi al suo ritorno nel paese. Iniziò chiedendomi com’era la mia professione e per non annoiarlo gli raccontai alcuni episodi curiosi della quotidianità. “<i>Oggi ho avuto una giornata teribile</i>”, m’interruppe all’improvviso. Gli risposi immediatamente confessandogli che anche per me lo era, che la pressione per l’intervista era molto forte e che ero preoccupato. Mi domandò se avessi una famiglia, io cercai nel mio cellulare una delle foto del mio compleanno. “Sei fortunato. A me nessuno mi capisce quando sono preoccupato”. “<i>Ma hai un sacco di soldi in banca!</i>”, gli dissi cercando di tiragli su il morale. Lui proseguì: “<i>Ho solo due opzioni, scappare o sorridere per le foto, a volte firmare un autografo. Poi se ne vanno senza dire una parola in più perchè hanno già ottenuto quello che volevano. Tutto ciò che devo fare è continuare a cantare e sorridere. Così funziona qui! Ci devi essere dentro per capirlo</i>”. Il mio istinto da giornalista mi fece chiedergli se si fidava di qualcuno. “<i>Mi fido solo dei miei genitori. È triste quando arrivi alla conclusione che quasi tutte le persone hanno un prezzo</i>”. Mi versò dell’altro whisky e mi disse in tono complice: “<i>Ora hai la tua frase da copertina</i>”.</div>
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Quando tirai fuori la macchina fotografica non fece una piega, rimase seduto guardando il quadernino che alla fine non avevo neppure aperto. Arrivò l’assistente per dirmi che il mio tempo era finito e Il Diamante si alzò velocemente con l’espressione del volto completamente cambiata. Mi porse la mano sorridendo e facendomi l’occhiolino mi disse di godermi il concerto. Uscii dallo stadio di buona lena e spensi il cellulare, immaginando che mi avrebbero chiamato dall’ufficio. L’unica cosa che volevo era tornare a casa dalla mia famiglia.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-74362998089048097772017-08-21T15:26:00.005+02:002017-08-21T15:26:30.207+02:00L’artista estivo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBI-BaNgk0FnZHoOeqprXFFd_TtLQ4iih6ZoPR2v9_wYXVZIB6nEdT5N5cEt3iBMCzQCL6kdQimgNaFjdLBAqXFqLQqRbEXiyvuChcnL92ksgcn1jgqspcsjjX9AJikLX6_xicwH5di3k/s320/lartista-estivo.png" width="320" /></div>
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Un quadro è come una canzone, era solito dire mio padre quando da piccolo mi portava ai musei d’arte, dove io mi annoiavo terribilmente. Diceva che la sua bellezza viene inevitabilmente condizionata dalla nostra età, dal nostro stato d’animo, e con il passar del tempo, crescendo, gli attribuiamo altri significati. Trent’anni dopo dovetti ammettere che mio padre aveva ragione.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Quando mio padre da energico agente di borsa passò a essere un vivace pensionato, diventò come un bambino inquieto con molto tempo libero e soldi da spendere. Poiché io ero il maggiore dei suoi figli e l’unico che ancora non gli aveva dato dei nipoti (cosa che gli faceva supporre che fossi quindi il meno impegnato di tutti) ero sempre il primo a ricevere le chiamate di mia madre lamentandosi delle pazzie di mio padre in casa. Infatti, se non era sul tetto cercando di aggiustare un’antenna ormai inservibile, era temerariamente intento a imbiancare la facciata arrampicato in cima a una malandata scaletta di legno. Durante una di queste telefonate arrivò la notizia che temevo; alla fine mio padre si era fatto male all’anca cadendo a terra. Quando andai a visitarlo, era tranquillo seppur sentisse un costante fastidio. Mi sedetti di fianco a lui e dopo avermi dato due pacche sulla spalla, mi chiese di passargli uno dei quadri appesi in sala, quello che raffigurava un tramondo sul mare. Lo guardammo insieme, in silenzio. Ricordavo quella tela da che avevo memoria. Mi raccontò che glielo aveva regalato un pittore colombiano chiamato Paco Navarro, con il quale fece amicizia durante la luna di miele a San Andrés nell’estate del 1977. Continuó raccontando che a Paco piaceva dipingere guardando il sole e bevendo un calice di vino bianco, e che in un solo pomeriggio diventarono amici. Mia madre aggiunse che quando lo conobbero, il quadro era quasi pronto e lo avrebbe terminato quella stessa sera. Osservai che l’opera non aveva la firma dell’artista e al menzionarlo notai che mio padre s’inombrò. Mi confessò che stava organizzando di andare a San Andrés alla ricerca del suo vecchio amico, ma ora con il problema all’anca non sapeva se sarebbe mai riuscito a farlo. Fu quel triste sospiro che seguì e il suo sguardo, quello di un bambino intrappolato nel corpo dolorante di un anziano, ciò che mi convinse tanto da dirgli, quasi senza pensare, che avrei potuto andare io a cercare Paco Navarro. Girò la testa, mi guardò e mi abbracciò forte mentre io realizzavo in quell’istante ciò che gli avevo appena promesso.</div>
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Quando dissi alla mia fidanzata che sarei andato in Colombia, terra di donne bellissime e -soprattutto- in un villaggio turistico caraibico per farmi firmare un quadro, si mise a ridere per l’incredulità. Probabilmente si arrabbiò moltissimo pensando che sicuramente avevo un’amante. Se non fosse che le mostrai il quadro e la lettera che mio padre aveva scritto, la cosa sarebbe finita male. E se non fosse stato per i suoi occhietti che mi chiedevano se avrei sentito la sua mancanza, non avrei comprato i biglietti del volo anche pe lei. Era la nostra prima volta a San Andrés e vedendo tutta quella meraviglia naturale non ebbi il minimo dubbio. Ero stato concepito in quel luogo nel quale anche due pietre avrebbero potuto innamorarsi. Ci mettemmo solo un’ora a trovare Francisco León Navarro. Era proprio come mio padre lo aveva descritto: un tipo cordiale, rilassato, bassino, magro e dal sorriso facile. Gli dissi che venivo da parte di un vecchio conoscente e che gli stavo per chiedere un gran favore. Senza lasciarmi finire di parlare chiarì subito che non aveva soldi, però poteva offrirci un calice di vino bianco. Ci conosceva a stento ma sembrava contento di avere visite. Camminava con difficoltà e nonostante l’età avanzata fece un paio di complimenti maliziosi alla mia fidanzata alla quale non dispiacquero. La casa era piccola e la quantità di sculture, libri e quadri la rendevano ancora più piccola. In quel disordine, mentre bevevamo il vino, Paco si sistemó il cappello di paglia e tirò fuori vari ritagli di giornale per farci vedere tutte le volte che lo avevano intervistato. Disse che dipingeva solo in estate e che in ogni caso aveva smesso perchè ultimamente non vedeva più tanto bene. Ricordava però perfettamente ognuna di quelle sessantatré estati da quando si era trasferito sull’isola. Guardavamo i ritagli; nelle foto indossava sempre il cappellino ed era sorridente. Decisi che era il momento giusto per dargli la lettera di mio padre e vedere se gli portava alla memoria qualche ricordo. In quel momento Paco Navarro si lasciò cadere dalla sedia. Quando si rese conto di quello che avevo nel sacchetto mi chiese di passargli il quadro. Lo prese in mano, lo accarezzò, lo guardò per qualche minuto e alla fine ci disse emozionato che aveva aspettato per tutta la vita di poter rivederlo, “<i>È come il figlio che stavo cercando</i>”.</div>
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Io non sono un artista e posso solo immaginare quanto possa essere difficile capire il legame che esiste tra un pittore e l’opera che crea, ma, come mi disse Paco prima di salutarmi probabilmente per sempre: “<i>la tristezza di lasciare andare un amore è proporzionale al tempo e al sentimento che hai investito per realizzarlo</i>”. E su questo non posso che dargli completamente ragione.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-36180652572568034772017-08-21T15:24:00.001+02:002017-08-21T15:24:07.885+02:00Overdose<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgks6s_rDTwerHuzWlFn10lAhaNr69rrh_ATS1LVR55br3zATbfKMKTqJxlOhQC3Pu9CQoCPINMlPAb0gXtlMtzT6MGPs08uCgzEtnU9Nhl-h9i_PHJuaVRhhVH9abAmIsaQ7vGWh2PxD4/s320/overdose.png" width="320" /></div>
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Disse Franklin Roosevelt che gli uomini non sono prigionieri del destino, ma prigionieri della loro stessa mente. E questa frase ispiratrice Lorena non l’avrebbe mai conosciuta se non fosse perché la lesse nel foglietto d’istruzioni che trovò nel pacchetto di pastiglie che aveva appena comprato. Quasi disperata per la sua situazione, si rivolse a un medico omeopatico che le aveva consigliato una delle sue migliori amiche. A nessun altro avrebbe potuto confessare il suo imbarazzante segreto. A quarant’anni, definiti ormani i nuovi trenta e in pieno apogeo della sua maturità fisica e mentale, suo marito, che aveva un paio di anni più di lei, aveva – per utilizzare un termine tecnico - smesso di funzionare.</div>
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Impossibile. Questa era la parola che più menzionava da quando una sera si rese conto che l’organo prediletto per far lavorare la macchina dell’amore (e non stiamo parlando del cuore) sembrava dormire tranquillamente e, il colmo, era che l’arnese fosse completamente refrattario a qualsiasi sua espressione. Stanchezza. Era la scusa che trovò lui per uscire da quella situazione scomoda e per cercare di conciliare il sonno dopo tale colpo alla sua virilità. Stress. La vaga seppur lunga motivazione che trovarono su Internet. Come si cura lo stress? Si deve accettare che la tua vita sessuale sia praticamente finita nel bel mezzo del cammin di nostra vita? Bello scherzetto che ci fa la natura, chiudere all’improvviso e senza avviso qualsiasi tipo di rapporto con uno dei membri più apprezzati della nostra anatomia e lasciarci ancora in vita portandoci dietro un peso morto per il resto della nostra esistenza. Proprio un bello scherzo. Lasciarono passare qualche settimana e vedendo che non c’era film, profumo nè indumento intimo che potesse risvegliare il nano addormentato, decisero di rivolgersi al medico, che sorridendo gli prescrisse una bella vacanza, perché fisicamente tutto era a posto. Così fecero e fu allora che, stesi sul bordo della piscina si resero conto che erano diventati troppo “genitori”. Adoravano i piccoli gemellini, ma probabilmente occuparsi troppo di loro aveva bloccato in qualche modo la delicata valvola della passione.</div>
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Quando l’amica parlò del medico omeopata, che si era occupato della salute della sua famiglia per anni, lei in un primo momento non ne fu molto convinta, ma data l’insistenza e sapendo che non aveva nulla da perdere, si presentó davanti al famoso personaggio. Con la serenità che conferisce l’esperienza, il medico le disse che di casi del genere ne aveva visti a centinaia e che non doveva preoccuparsi. Piccolo com’era, si perse per un momento tra gli scaffali pieni di creme, erbe e unguenti. Riapparì con una scatolina bianca in mano e sempre con una postura rilassata. Allora si sedette su una sedia di cuoio di quelle che girano e inizió a spiegare l’importanza del fattore mentale in qualsiasi malattia, rilevante tanto quanto i batteri o le difese che la provocano o la combattono. Un paziente suggestionato può sentire più o meno dolore dipendendo dagli stimoli che riceve. Lorena ascoltava attentamente e allo stesso tempo si chiedeva cosa mai ci fosse nella scatolina. Terminata la breve introduzione, l’omeopata le chiese complicità per quello che stava per succedere. Tirò fuori dalla scatoletta bianca un contenitore di plastica senza etichetta, ma pieno di pastiglie. Doveva convincere suo marito che erano multivitaminici rinforzati con erbe rare della foresta amazzonica grazie alle quali avrebbe aumentato la sua forza e le sue prestazioni amatoriali in poche ore. In realtà erano solo caramelle a forma di pillole medicinali, ma lui non avrebbe dovuto saperlo. Era il momento di ingannarlo e di osservare il magico potere della mente. Se questo non avesse funzionato, c’era sempre la possibilità di un piano B. Lorena, basita, non avrebbe mai accettato se non fosse stato che le “pastiglie” in questione costavano davvero sciocchezza.</div>
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Quella stessa sera, dopo aver messo a letto i piccoli, Lorena tirò fuori dalla borsetta il contenitore e ripetè le stesse parole che lo specialista le aveva esposto convincendola qualche ora prima, ma prendendosi la libertà di aggiungere alla formula anche qualche erba rara dell’India, un tocco di erotismo ancestrale che le sembrò adeguato per la circostanza. L’uomo caddè subito nella trappola e ingoiò un paio di pastille con un sorso d’acqua. Era da quando si erano appena sposati che lei non aveva più vissuto una notte così selvaggia. Non sapeva se il medico l’avesse fregata o se davvero il placebo stava sortendo l’effetto desiderato. Tant’é, quello non era certo il momento di mettersi a pensare! Il giorno dopo passò in un lampo tra i mille messaggi sconci che scambiò con il suo ritrovato e focoso sposo amante che non vedeva l’ora di rivederla. Tuttavia, una volta a casa, lo trovò pallido e spaventato. Le confessó che per l’emozione aveva appena ingoiato tre pastiglie e che dovevano andare subito all’ospedale per essere certi che non si verificasse un episodio di overdose. Lei quindi, sorrise divertita e lo baciò. Sarebbe stata un’altra notte lunga e dolce come una caramella.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-11562797015701901682017-08-21T15:21:00.003+02:002017-08-21T15:21:36.934+02:00Il soldato spagnolo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEityuZM9wyo0dgSzOwbyMTEfO5s49PZehWgqAY_J9tF7rb5O-1JijL6DTWGpOs6tHydO3z4oXYavWf7yZ9KtaniFM-4bgwkrDW5xQYoJzkiqpIfPECeViBUtuOpLdhcVkzUnfN9jPjX4fY/s320/il-soldato-spagnolo.png" width="320" /></div>
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Arrivò in un pomeriggio come tanti con due sacchi neri di plastica, dalla montagna più alta, là dove si poteva vedere tutta la città, che dal canto suo, restituiva lo sguardo con disprezzo. Gli abitanti di quell’umile luogo accolsero con silenzio solidale il timido anziano che si affannò a finire di costruire rapidamente un giaciglio con una base di legno e cartoni che aveva diligentemente raccolto per un mese.</div>
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Uno dei residenti del quartiere era un giovane di dubbia fama, cosa della quale a non molti importava in quanto, in quell’area, erano ben pochi coloro che riuscivano a sopravvivere con onore. Il vecchio vendeva giornali e riviste vicino al mercato dove il giovane girovagava con la sua banda e tra un incrocio di sguardi el’altro si abituarono a darsi il buongiorno. Il vecchio non era di molte parole, come se le sue parole fossero quelle poche monete che guadagnava e preferiva non spendere inutilmente. Quando il mercato chiudeva, gli unici posti che rimanevano aperti erano i bar mal frequentati, dove i portafogli più leggeri potevano trovare rifugio. In quei posti maleodoranti e sudici, che sembravano non dar fastidio ai parrocchiani dall’indole triste, il giovane si imbattè nuovamente con il vecchio al quale piaceva sedersi da solo, guardando il suo bicchiere di plastica pieno di rum e che faceva girare lentamente sul tavolo. “<i>La Russia è colpevole!</i>” – gridò improvvisamnete il vecchio un giorno e chi lo sentì si mise a ridere pensando che quel tipo solitario era diventato matto. Con il passare delle settimane continuò a urlare altre frasi ed evviva incoerenti, cosa che a qualcuno cominciò a dare fastidio, tanto che, in più di un’occasione, il giovane dovette intervenire per evitare una lotta impari. Queste azioni non passarono inosservate e un giorno il vecchio invitó il giovane a casa sua per bere qualcosa insieme lontano dalle risse e dall’insopportabile puzza di quel bar.</div>
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La stanzetta era buia ma perfettamente ordinata. Il vecchio prese due pneumatici di camion che teneva in un angolo e vi mise sopra due cuscini per farle diventare un sofá. Si servirono un bicchiere colmo di rum, ma non passò molto tempo prima che il vecchio riprese a delirare. “<i>¡Voljov, Voljov!</i>” –ripeteva instancabile e non sembrava esserci modo di fermarlo. Il giovane decise di lasciarlo farneticare, però la curiosità lo fece ritornare la sera dopo, soprattutto per chiedergli che diavolo significasse <i>Voljov</i>. Allora, il vecchio –che sembrava essere rimasto in attesa di quel momento – gli porse la mano e si presentó. Disse di chiamarsi Luis Ángel Sánchez Molina e di essere un cittadino spagnolo. I sottili capelli bianchi, la pelle rovinata dal sole e l’accento ormai perso fecero sì che il giovane non potesse nascondere una smorfia di scherno. Il vecchio tuttavia non fece una piega e continuó. Apparteneva alla División Azul, nella quale si era arruolato volontariamente quando aveva sedici anni, falsificando i documenti per combattere a Leningrado contro i russi comunisti insieme all’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. “<i>Sono un veterano del Regimento della Infantería Martínez Esparza!</i>” concluse. Chi poteva credere a questo povero nonnetto alcolizzato? –pensó il giovane, estremamente divertito dalla scena.</div>
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Dal quel giorno il vecchio divenne una macchina inarrestabile che narrava racconti e il giovane lo cercava sempre per ascoltare ancora più storie incredibili e affascinanti. “<i>Non avendo raggiunto l’obiettivo ci mandarono a casa, però io decisi di andare in Francia per due anni. Da un momento all’altro la gente iniziò a guardarmi male, mi davano dell’estremista, per questo scappai e per un errore del destino finii in carcere</i>”. Codice antico degli ex reclusi era non confessare il motivo della condanna e anche in questo caso venne rispettato. “<i>Ho visto mezza Europa con i miei occhi e con gli stessi ho visto finire metà della mia vita intrappolato in quattro pareti</i>”. La voce del vecchio a momenti si assottigliava, il suo sguardo in quegli istanti era più eloquente delle sue stesse parole. Una sera nella quale il rum scorreva a fiumi confessó: “<i>Nascosi una fortuna in un campo prima che mi arrestassero e adesso è un maledetto parco nel bel mezzo di un qualtiere di lusso. Come mi videro mi cacciarono immediatamente. So esattamente dov’è, si tu riesci a recuperarlo, ti prometto che ti dò la metà</i>”. Il giovane immaginò fosse una delle tante fantasie del vecchio, ma quegli occhi stanchi brillavano ogni volta che pronunciava la parola tesoro.</div>
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Cinque anni più tardi, guardando la montagna miserable da lontano, il giovane sentì la mancanza delle tante avventure che gli raccontava il suo eroe spagnolo, ricordi che poco a poco scomparivano dalla sua memoria come cubetti di ghiaccio in un bicchiere di rum </div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-60896401003932775312017-08-21T15:15:00.004+02:002017-08-21T15:15:55.608+02:00Frutta macerata<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCntGSt4IhEJYBDkBsPPvFjr50Rh9vrnLrsH_fxu_k1tuBPYeCRLPo7yZRdwv5m3OowOeRTdrnw2SaXPDERqIdOhakRJzRGmlUhwJEFWSeAh61YTp_vTw-VVeBmC8GEfY9NakLDoytOCo/s320/frutta-macerata.png" width="320" /></div>
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<i>"Frutta buona, compra la frutta buona!"</i> gridavano le signore con il grembiule dal loro banchetto quando passavano i clienti del sabato che si muovevano in involontaria armonia a ritmo di processione. Nonostante avesse vissuto in quel quartiere tutta la vita, era la prima volta che Victor si trovava nella necessità di andare al mercatino comunale. Pensava che con hamburger e uova fritte un uomo potesse vivere tranquillamente per sempre ma si sbagliava. Mentre camminava sui marciapiedi strabordanti di gente e di odori di tutti i tipi, sentiva la mancanza del sorriso di Pamela mentre lo aspettava con un piatto diverso e buonissimo tutte le sere. Nonostante il suo spirito giovanile non centrasse nulla con il suo aspetto fisico, era entrato ormai a forza nel dubbioso club dei vecchi scapoli e aveva inevitabilmente dovuto occuparsi da solo di tutte le sue necessità, includendo (soprattutto) quelle sessuali.</div>
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Cucinare era uno di quei problemi che era riuscito a evitare con gli anni, facendo ricorso a sua madre, alle nonne o fidanzate cresciute alla vecchia maniera, dedite agli obblighi domestici. Aveva quindi la remota speranza che in quel contesto, tra tante signore dall’aspetto imponente che gli ricordavano con affetto sua madre, avrebbe incontrato l’aiuto necessario per potersi preparare qualcosa che non fosse né fritto in padella, né da scaldare in microonde. Camminando distrattamente notò un personaggio che aveva poco più della sua età, portava un cappello da cowboy che gli copriva quasi la metà del volto e non la smetteva di fare il cascamorto con le donne intorno a lui. L’uomo si rese conto che lo stava osservando e gli chiese a gran voce se per caso avesse bisogno di qualcosa. Stranamente Victor si sentì tranquillo nel rispondergli che non sapeva un corno di cucina e che aveva una terribile voglia di mangiarsi un buon petto di pollo al forno con puré di patate e con un dolcetto all’arancia. Il dettaglio al quale non aveva fatto caso, era che il tipo vendeva solo frutta. Dopo essersi messo a ridere a bocca spalancata per un bel po’, il tizio iniziò a muoversi veloce andando da una bancarella all’altra, prendendo gli ingredienti necessari per cucinare quei piatti e approfittando ancora un po’ per fare lo scemo con le commercianti giovani, mentre recuperava le verdure, la carne e il resto. Dopo pochi minuti tutto era pronto. Ignorando la prima regola dei mercati per la quale si deve sempre trattare il prezzo, Victor pagó la somma totale e tornò velocemente a casa pensando al modo in cui preparare il cibo che aveva appena acquistato. </div>
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L’incontro si sarebbe ripetuto le settimane successive e la dinamica sarebbe stata sempre la stessa. Come se si trattasse di una fabrica che funziona in perfetta sintonia, uno menzionava il prodotto finale e l’altro somministrava la materia prima. Non si erano mai presentati, nessuno dei due sapeva il nome dell’altro però si capivano perfettamente. Victor si era accorto che il prezzo finale era un po’ gonfiato, ma considerava che valesse la pena pagarlo, non credeva che qualcun altro avrebbe avuto la pazienza e l’iniziativa del cowboy.</div>
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Uno di quei sabati passó come tanti altri, pieno di gente, urla e odori. Sentendosi intrappolato nella quotidianità, chiamó gli amici di sempre per distrarsi un po’ quella sera, musica e alcol in un bar. Arrivata l’alba lasciò che uno dei ragazzi guidasse la sua auto e portasse il resto del gruppo alle rispettive case. Una volta fatto questo, gli sarebbe rimasto solo da percorrere le strade che conosceva per arrivare a casa. Quando passarono per la zona del mercato gli sembrò di riconoscere qualcuno in un gruppo di persone che era riunito in un angolo scuro e chiese di fermare un attimo la macchina. Scese dall’auto e si avvicino al tizio che indossava l’inconfondibile cappello da cowboy. Ubriaco com’era, voleva salutarlo facendogli molte feste e celebrandolo per tutti i piatti che era riuscito a cucinare grazie a lui. La risposta non fu quella che si apettava. Il tipo aveva gli occhi che sembravano di vetro, lo sguardo perso e la bocca semiaperta con spuma bianca ai lati. Non era l’uomo con il quale poche ore fa aveva parlato. Sbiascicò due parole incoerenti e dopo un momento di silenzio teso, tirò fuori dai pantaloni un coltello. Victor gli chiese di calmarsi, che non aveva più intenzione di salutarlo. Di tutta risposta ottenne un altro grido e si ritrovò la lama affilata sempre più vicina e minacciosa. Si rese conto allora che quell’uomo non era colui che amabilmente lo serviva ogni sabato, ma una versione crudele dello stesso. Si allontanò velocemente e tornò in macchina. Nell’oscurità della sua cameretta e in tutta franchezza, arrivò alla conclusione che la vita non è altro che una serie di battaglie che si vincono o si perdono e basta. Era sicuro che la settimana seguente sarebbe tornato al mercatino e si sarebbe comportato come se nulla fosse successo, come se l’oblio fosse il premio del tempo.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhp32O-X3IcH8H5Zt5KJGa1ZVI5Ub866ulALrDJHVw2r1HDQn6AWk3pYDAdEgEAuDsWUUQNjsu3fqIG_MkV5cDuEdkUvX8fKJ4iIxYKDSSpsoe6QyHZ9HYhzsgOavmUIdzSIPZNz9ZdDvk/s1600/il-violinista.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhp32O-X3IcH8H5Zt5KJGa1ZVI5Ub866ulALrDJHVw2r1HDQn6AWk3pYDAdEgEAuDsWUUQNjsu3fqIG_MkV5cDuEdkUvX8fKJ4iIxYKDSSpsoe6QyHZ9HYhzsgOavmUIdzSIPZNz9ZdDvk/s320/il-violinista.png" width="320" /></a></div>
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La navata dall’ingresso centrale all’altare era decorata con fiori bianchi che illuminavano ancora di più quella serata speciale. Lo sposo sorrideva nervoso, metteva e toglieva le mani dalle tasche per salutare da lontano gli invitati che arrivavano. Parlava ogni tanto con il sacerdote, il quale, vantando un’esperienza di duecendo nozze celebrate, faceva delle battute per aiutarlo a rilassarsi. Intanto, a pochi metri da loro, due musicisti aspettavano il loro momento vestiti in modo impeccabile e con il violino in mano.</div>
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I minuti trascorrevano e la sposa non arrivava. Uno dei testimoni suggerì che i violinisti iniziassero a suonare le migliori musiche del loro repertorio per distrarre gli ospiti in fribillazione. L’organo dall’alto della chiesa, con la prima nota dell’Adagio di Albinoni, creò da subito un’atmosfera solenne e provocó il silenzio assoluto. Il padre dello sposo sembrava un po’ infastidito, disse a voce bassa al figlio che il pezzo gli sembrava troppo triste per un evento così importante. Ma lui non prestò attenzione, o forse non volle ascoltarlo. Era, come tutti, tranquillo e osservava attento, sedotto dalla melodia. Il ritardo della sposa passò qundi in secondo piano, tanto che quando la sposa fece la sua apparizione se ne accorsero solo il prete e il fotografo. Dopo qualche secondo le persone si guardarono tra loro, musicisti compresi. Non sapevano se dovessero continuare a suonare oppure fermarsi. Con una manovra ritmica sorprendente passarono a intonare il famoso Canone di Pachelbel, cosa che fece partire spontaneamente un paio di applausi. Nel fare la sua comparsa, la sposa aveva il sorriso stampato sul volto e nessun segnale visibile di ansia, al contrario dello sposo.</div>
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“<i>Come hanno fatto? Sono molto bravi</i>” diceva una signora all’amica riferendosi agli interpreti che erano intenti nella loro coinvolgente esecuzione. Quella stessa signora di fatto non aveva staccato lo sguardo dal violinista più giovane che, con gli occhi chiusi, sembrava respirare all’unisono con lo strumento che suonava, lasciandosi inebriare dal profumo dello stesso. Aveva un’espressione melanconica che prima non aveva. La cerimonia continuó secondo i piani. Il vivace sacerdote benedisse gli sposi che si giurarono eterno amore e le madri si commossero lasciando scendere inevitabilmente qualche lacrima. I freschi consorti si diedero nuovamente un bacio e si lasciarono andare agli scroscianti applausi del pubblico emozionato. La musica riprese a suonare per la gioia di tutti, componendo una perfetta e indimenticabile canto. Il suono delle corde si confondeva tra le risate, le battute e gli evviva degli invitati. Pochi ascoltarono ciò che qualcuno si era lasciato scappare inopportunamente: ci fu un tempo in cui il giovane violinista e la sposa si erano amati. Coloro che avevano sentito si girarono a guardare il musicista. Ora era tutto chiaro. La coppia di sposini salì su un’auto bianca e sfrecciariono veloci verso la location della festa. Gli ultimi a lasciare la chiesa potevano giurare che da lontano ancora si poteva sentire un motivo dolce e triste, infinito.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMPuSAreuApAWjNQnC3m15Bfp3Nhrvyl7IRs-BX3oOEciCN5I34dcS0LlYDxlvOlcqhGKBOOaj0Lh-4OQGgtaiALF9o9oHkvyzXLaAwk_RT6-eIvQ9Nfb581bx9uQaxLuatVbtaLlaFmg/s1600/porno_star.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="209" data-original-width="400" height="167" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMPuSAreuApAWjNQnC3m15Bfp3Nhrvyl7IRs-BX3oOEciCN5I34dcS0LlYDxlvOlcqhGKBOOaj0Lh-4OQGgtaiALF9o9oHkvyzXLaAwk_RT6-eIvQ9Nfb581bx9uQaxLuatVbtaLlaFmg/s320/porno_star.png" width="320" /></a></div>
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Fino a quel pomeriggio di venerdì quattro febbraio la vita di Carlos Marcelo scorreva normalissima, quasi noiosamente. È importante sottolineare la data in quanto Carlos l’avrebbe ricordata per sempre come il giorno in cui iniziò la sua incredibile storia. Stava controllando svogliatamente le sue mail quando ll’improvviso scorse un messaggio di un ex compagno di scuola con il quale non parlava più da anni, a eccezione dei tradizionali messaggi di Natale o compleanno. La mail iniziava scusandosi per il disturbo e chiarendo che quello che aveva visto era colpa di un collega il quale aveva condiviso un video trovato su un famoso sito web per adulti. Capita a tutti di negare quell’irrinunciabile e irrefrenabile natura onanista.</div>
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Continuava diciendo che, senza volerlo offendere, gli era sembrato di averlo visto nel sucitato video senza vestiti e realizzando accrobazie non propriamente circensi. In caso si trattasse effettivamente di lui, gli consigliava di prendere le misure necessarie per proteggere la sua privacy. E poi gli lasciava il link diretto al contenuto. Carlos lesse cinque volte il messaggio senza poter credere ai suoi occhi, era convinto di trovare prima o poi qualcosa per cui si sarebbe reso conto che in realtà si trattava di uno scherzo o di un virus di quelli che vengono inviati automaticamente attraverso i contatti delle persone che si conoscono. Niente. E neppure poteva aprire il <i>link </i>in questione pechè era a lavoro. Cancelló l’appuntamento che aveva con il dentista e appena finito di lavorare corse dritto a casa, praticamente lanciandosi sul suo laptop. Erano tredici minuti di azione dura e pura, duecentonovanta commenti e diecimilaottocento visualizzazioni. Si ricordava di quel video, l’aveva filmato proprio lui con la sua videocamera dodici anni fa in un hotel del centro. La sua compagna di scena, per così dire, era un’amica con benefit di allora, un’inquieta e bella colombiana dalla pelle color cannela.</div>
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Preso dal panico, si mise le mani nei capelli e cominciò a fare avanti e indietro nella stanza cercando di mettere ordine nel mare magnum di pensieri che si susseguivano nella sua testa. Com’era potuto accadere? Chi era entrato nel suo PC e stava rubando i suoi dati più sensibili e intimi? Si mise nuovamente davanti allo schermo alla ricerca del colpevole. Prima di tutto avrebbe cambiato la password o forse qualcuno stava accedendo da remoto ai suoi dati ed era meglio sconnettersi da Internet per il momento. Il suo crescente stato di paranoia venne improvvisamente intorrotto da un’immagine, un ricordo che chiariva tutto: un mese prima aveva portato a far riparare il computer in un famoso negozio di tecnologia. Poteva scommerterci che era stata opera di un tecnico pervertito che aveva ficcato il naso tra i suoi documenti, aveva scoperto il video sconcio e non contento lo aveva caricato sul sito XXX più seguito. O, per lo meno, il più seguito tra i suoi amici e colleghi, e questo lo faceva infuriare ancora di più. Nonostante al negozio negarono qualsiasi capo d’accusa, a fronte dell’insistenza di Carlos, il responsabile disse che il negozio seguiva precise norme etiche molto severe tra gli impiegati, ma che, ad ogni modo, sarebbe personalmente andato in fondo alla faccenda. Buone intenzioni, ma il fatto era che ogni minuto che passava, qualcuno là fuori nel mondo lo stava guardando mentre sudava, faceva versi di piacere, saltava come una scimmia in gabbia e gridava come un guierriero apache, peculiarità che lo contraddistinguevano quando faceva l’amore.</div>
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Sentendosi stanco e impotente tornó a casa a guardare nuovamente il video sul quale già si contavano altre cento nuove visualizzazioni in poco più di un’ora. Ripassó lentamente i commenti e alcuni riuscirono quasi a farlo calmare. In più di una lingua, e da tutto il mondo lo salutavano e si complimentavano per la spettacolare performance amatoria. Tra i commenti ne scorse uno in particolare che diceva: “<i>Se sei colui che appare in questo video, scrivimi in privato, ho una proposta d’affari per te</i>”. Non potè trattenersi dal ridere, era l’ultima assurdità che mancava per concludere egregiamente la giornata. Tra curiosità e rassegnazione, s’iscrisse al sito e gli mandò un messaggio privato. Dopo poco arrivò la risposta e, ancora senza poterci credere, continuò questo gioco di botta e risposta. Dopo quattro ore di scambio di missive che continuarono anche per le quattro settimane successive, otto settimane dopo quel lontano venerdì quattro febbraio, Carlos Marcelo mise piede per la prima volta all’aeropuerto di Barajas, Madrid. Fu così che nacque una leggenda.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgX5mMnjALJQdfDgHN4QRRhHELcSTSeFj7T_neZpQiUEmDeDxGPQOztE8WBPKNd6S-mpOdrPBbB3zue7WoowOKajTgv8EQxrTrqo6qZM-vi-QK2ZYBlAnraDH-omp7__cRqz_wC_zoxH9M/s320/un-amore-senza-internet.png" width="320" /></div>
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Quanto ti amo Clarita. Solo a te poteva venire in mente di esigere per il giorno del nostro primo appuntamento che nessuno dei due tirasse fuori il cellulare né utilizzasse internet, strumenti ai quali oggi è molto difficile rinunciare. Pensavo stessi solo scherzando ma con i tuoi occhioni marroni mi facesti capire che non era affatto così. Lo so. Volevi che fosse speciale, che richiedesse tempo, sforzo e immaginazione. Come fu per i tuoi genitori, che s’innamorarono senza tutte queste diavolerie e che ti fecero nascere in questo pazzo mondo.</div>
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L’avventura cominciò venerdì sera con Adriana, una nostra amica comune, che si offrì come testimone e arbitro di questa controversia old school. Davanti a lei spegnemmo i nostri cellulari con la promessa di non riaccenderli fino alla domenica. Promise quindi che, ligia al suo ruolo, avrebbe provato a telefonarci per tutto il sabato e che avrebbe controllato lo status di connessione dei nostri social networks per verificare che rispettassimo la parola data. La verità è che vederla così sicura ed eccitata mi fece quasi paura. Quella sera fu strano non poter augurare la buona notte a Clarita via WhatsApp e che lei non potesse rispondermi con una faccina di quelle gialle che lancia un bacio volante. Il giorno dopo fu un casino. Fedele alla mia parola, andai rapidamente in cucina per fare colazione bramando laptop e tablet. Nessuna notizia o mail da leggere, nessuna novità su Twitter o Facebook, né video a caso su YouTube. Sono così abituato ad aprire una quantità imprecisata di pagine, per poter assaporare poco a poco le tante informazioni dalle quali siamo bombardati, che la televisione mi diede l’impressione di essere troppo statica e noiosa, tanto che la spensi senza pietà. Era come una triste compagna, che una volta accesa trasmetteva solitaria, in secondo piano, cercando inutilmente di richiamare la mia attenzione mentre io mi sommergevo insaziabile nelle acque profonde di quel oceano invisibile (e invincibile) chiamato Internet.</div>
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Non ero pronto a un giorno così e senza un’agenda di riferimento dovetti arrangiarmi per trovare il numero di casa e l’indirizzo di Clarita. Dopo aver messo sotto sopra la mia stanza alla ricerca di un pezzo di carta sul quale avevo appuntato il numero di Adriana o il numero di qualcuno che la conoscesse (lei era l’unica che potesse salvarmi), mi venne in mente di vedere se per caso avevo conservato da qualche parte un suo bigliettino da visita. Quando la chiamai rispose immediatamente al cellulare - sicuro era tutta presa nel suo psicopatico compito di controllare se Clarita e io fossimo sempre off line – e dopo essersi accertata che la stessi chiamando dal mio telefono fisso mi dette sì, tra le risa, quel benedetto numero, ma l’indirizzo ”<i>lo scopri tu da solo caro, mica vorrai vincere facile!</i>”. Mi ero dimenticato di quella sensazione tra ansia e nervosismo, di quando l’altro telefono squilla. L’ultima cosa che ti aspetti è che ti risponda una voce da uomo, che ti chieda cosa vuoi, che semplicemente riatacchi o neppure ti rispondano: in parole povere, chi diavolo chiama al telefono fisso di questi tempi?! Questi pensieri deliranti mi facevano venir voglia di riagganciare per prepararmi un mini discorso e poi richiamare. Per mia fortuna rispose Clarita che mi raccontò di aver provato la stessa cosa con la televisione quella mattina. Nonostante tutti i suoi sforzi per spiegarmi dove viveva, non potei stabilire una mappa esatta nella mia mente, questo era lavoro per Google Maps. Alla fine mi trovai dalla parte opposta della città, a un’ora di distanza da casa mia.</div>
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Guidai per due ore, sapendo che a ogni svolta mi perdevo un po’ di più, chiedevo alla gente ed ero ancora più perso. Non potevo chiamare, e comunque non avrei ricordato neppure il mio numero a memoria. Sfinito e ormai conscio della mia dipendenza dalla tecnologia parcheggiai davanti a una farmacia per poter telefonare dal telefono pubblico a casa di Clarita che mi rispose preoccupatissima. Quella notte la passammo a casa sua – scoprii che viveva da sola - ridendo di quanto diventino difficili le cose che prima erano facili e viceversa. Quanto mi hai fatto sudare Clarita, però quando ti baciai e ti accarezzai i capelli mi resi conto che ne era valsa la pena fare questa pazzia e che per fortuna non eravamo e non saremo mai due faccine gialle che si mandano solo baci volanti.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgn3eIRsa4ivyIu7sWFblhF5hchje4as0HdfteJWxIm1KhJFtt08kVAwL6AhvIs8PHKcMAAuhujAyYsbj8JpiJ3RO6O4N3QvFLHjpCDIVBPvlK-Iv_e9qPU-xJjbdC6Xa6tDmOlRKntV1I/s320/funghetto-magico.png" width="320" /></div>
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Era uno di quei giorni nei quali ci si sveglia sperando che arrivi presto la sera. Mariella aveva finalmente accettato il mio invito a cena e le cose si mettevano ancora meglio in quanto ci saremmo visti nel mio appartamento, e con me come chef e anfitrione. Con la preparazione in casa, non solo stavo guadagnando punti, ma anche il mio portafogli avrebbe tirato un sospiro di sollievo dopo la dura stagione natalizia. La ricetta vincente: Petto di pollo con salsa ai funghi. In realtà era l’unica ricetta facile che mia madre riuscì a inviarmi via e-mail. Si era anche offerta di venire a cucinare, tuttavia avere tua madre in casa al primo appuntamento era come svuotare completamente la piscina prima di buttarcisi dentro.</div>
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Decisi di andare al mercatino che era a pochi passi dal mio ufficio, convinto che con quello che avrei risparmiato avrei potuto comprare il vino francese che le avevo promesso. Per fortuna mi fecero degli ottimi prezzi e i venditori furono molto gentili. Il vino francese era assicurato. Arrivato a casa, una volta sistemati gli ingredienti sul tavolo, mi cadde l’occhio sulla confezione dei funghi. Conteneva un sacchettino di funghetti rossi, piccoli e tagliati a pezzetti. Pensai che fosse un’attenzione in più da parte del rivenditore, una specie di condimento per la mia salsa, visto che gli avevo raccontato il piatto che avrei cucinato. La cena era pronta nel momento in cui arrivò Mariella ed entrando mi fece due complimenti: il profumino che arrivava dalla cucina e il profumo che indossavo io. Era la giusta dose di autostima della quale avevo bisogno per far andare in porto la serata. Le baciai con dolcezza la mano sinistra e la invitai a sedersi. Misi su l’ultimo disco di Arjona; nonostante lo odi, sapevo che era il suo artista preferito. Pensate, quale migliore scena di te che servi la cena mentre lei, con quel vestito nero super stretto dal quale potevo intravedere le sue splendide gambe e il suo meraviglioso seno, canta rilassata una canzone del disco che le piace! Sebbene fosse quel dannato Arjona. Brindammo alla nostra prima cena, lei mi guardò negli occhi, le brillavano e le dissi che era un onore per me poterla ospitare quella sera nella mia umile dimora. Non sapeva che per metterla a lucido mi ero ammazzato pulendola per tutto il passato fine settimana. “<i>Il pollo era buonissimo</i>”, mi disse e io annuii ringraziando tra me e me mia madre. Mi guardava maliziosa e sorrideva ogni volta che la guardavo. Quanto mi piace questo gioco.</div>
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Passò un’ora e mentre finivamo la bottiglia di vino, all’improvviso sentì che il mio corpo era diventato leggero come cotone. Il suo viso iniziò a prendere forme strane davanti ai miei occhi e da un momento all’altro, Mariella aveva cinque occhi, due bocche e otto seni. Mi sforzavo inutilmente cercando di mantenermi vigile. Non mi sentivo più le gambe e non riuscivo più a tenere in mano il bicchiere di vino, che mi sembrava fatto di carta. Tutte le tonalità della luce diventarono più forti fino a invadere il mio panorama. Lei allora mi guardò, avvicinò il suo viso vicino al mio e mi chiese se mi sentissi come lei. Eravamo drogati e l’uno vedeva l’altro come un quadro di Salvador Dalí. Le dissi di stare tranquilla, che potevamo essere gravemente intossicati e che avrei chiamato un’ambulanza. Non riuscii a farlo, Rimanemmo in silenzio per un’eternità e quando me ne resi conto eravamo stesi sul tappeto accarezzandoci. Le sue mani sembravano gelatina, i suoi capelli sabbia del mare e il suo volto una pasta di argilla. Ridevamo rendendoci conto di quello che sentivamo e senza accorgerci rimanemmo nudi, toccandoci come due bambini che scoprono la schiuma del sapone durante il loro primo bagno. Data la situazione, pensai che sarebbe stato il momento giusto per fare l’amore e nella mia ingenuità cercai di concretizzare l’atto, inutilmente. Sfido chiunque a fare sesso con una donna con tre teste e le corrispondenti parti intime. Ridemmo tantissimo senza avere la più pallida idea di quello che stavamo facendo fino a quando ore dopo, ormai all’alba, ci rivestimmo vergognandoci. Prima di andarsene mi abbracciò e con grande sorpresa mi bació sulle labbra, ringraziandomi per la strana ma indimenticabile cena. I giorni seguenti non ebbi sue notizie, la mia voglia di chiamarla si scontrava con la strana sensazione di doverle spiegare ciò che era successo in quella notte, senza neppure avere una spiegazione. Un mercoledì tuttavia, mentre stavo pranzando, ricevetti un SMS di Mariella nel quale mi chiedeva di cenare nuovamente da me. Seppi in quel momento che dovevo tornare al mercatino.</div>
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<img border="0" data-original-height="231" data-original-width="400" height="184" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvQiy-aLzKmuhB4H6P6YGzy0iLta-zZ3G6ot3WG54H5hw3u-VntFfvqcG2plaTXJtdSH280QZ5if3iKnw_Mjc3SWSWbN3VEF5GzPMD6cZg37Y2GBI5NHe52_bu2kPGQB7P6CIA4ufO5eg/s320/il-primo-della-classe.png" width="320" /></div>
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Ero di fretta e di pessimo umore perché proprio quando avevo bisogno della macchina – mio figlio aveva la sua prima recita a scuola – il mio meccanico di fiducia mi chiamò dicendo che l’officina era chiusa perché si era svegliato con un febbrone da cavallo. Guardavo continuamente l’orologio e il cellulare, pensando al giorno in cui qualcuno avrebbe finalmente inventato un’applicazione per il teletrasporto. Continuavo a imprecare a denti stretti mentre camminavo per la strada senza riuscire a fermare un maledetto taxi perché tutti erano occupati, confermando la mia teoria per la quale se un giorno deve andare tutto storto, non c’è nulla che si possa fare per impedirlo.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Dopo quasi dieci minuti di attesa riuscii a trovarne uno che mi portò a destinazione. Probabilmente mi disse il prezzo, ma la mia mente era concentrata su altri pensieri come quello di ia moglia e la sua tipica faccia da “<i>dove-sei-stato</i>” e “<i>sicuramente-per-te-ci-sono-cose-più-importanti-di-tuo-figlio-o-di-me</i>”. Il tassista era un tipo robusto con la barba incolta e brizzolata e raccontava una balzelletta dietro l’altra. All’inizio non ci feci caso, poi sentondolo ridere come un pazzo delle sue stesse battute, mi passò l’arrabbiatura e iniziai a ridere con lui. Notando che guardavo l’orologio ogni due minuti mi chiese come mai fossi così in ansia, rassicurandomi, allo stesso tempo, che avrebbe cercato di fare il prima possibile. Quando gli raccontai del meccanico e della recita di mio figlio diventò ancora più estroverso e mi raccontò che lui aveva tre figli: Lucas, Esteban e Valeria. Dei tre solo Valeria, la più piccola, aveva preso da lui la sua stessa abilità con i numeri, tanto da fargli ricordare di quando lui andava a scuola e otteneva i voti migliori. Però, questo è certo, a Valeria aveva insegnato ciò che lui stesso aveva imparato dalla vita, non sedersi mai sugli allori perché sempre ci sarebbe stato qualcuno che si sarebbe messo d’impegno per superarla o che facilmente l’avrebbe superata, come era successo a lui. “<i>Un giorno, quindi, arrivò un ragazzino dalla provincia, che neppure sapeva parlare spagnolo, ma che era sempre il più bravo in tutto. Studiava giù a testa bassa quel disgraziato!</i>”. Si divertiva raccontando di quel bambino che era venuto dal centro del paese per togliergli il trono. “Era magrino quello, sarebbe stato meglio che gli avessi dato una banana Chiquita per non farlo studiare tanto e rompermi le scatole, ah ah ah!”. Gli raccontai che io ero nato in provincia, ma ero cresciuto in città con tutte le avversità che deve affrontare un emigrante, ragione per la quale, molti di noi sono dei lottatori, virtù che cercavo di inculcare in mio figlio Eduardo. "<i>Ah caspita Dottore, non volevo offenderla pero le giuro – gli piaceva un sacco giurare – che quel moccioso mi colpì così tanto che anche ora, veda lei, dopo tanti anni, ancora ho un ricordo nitido di quando vidi i quadri a scuola e io non ero il primo, bensì questo tale Manuel Quiróz Talledo.</i>" In quel momento il mio cuore si fermò per qualche secondo: era il mio nome. Mi voltai, lo osservai e gli domandai: “<i>Oscar Javier Roca?</i>”</div>
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Il tassista frenò di botto quasi provocando un incidente a catena. Con l’auto ferma in mezzo alla strada ci guardammo fissi negli occhi e solo lì finalmente lo riconobbi, dietro a quelle occhiaie e la barba grigia, vidi il volto del mio compagno di classe, trentadue anni dopo. Ci slacciamo le cinture di sicurezza e ci abbracciammo. Mi diede due pacche sulla schiena, poi si scostò nuovamente per guardarmi, con gli occhi pieni di lacrime. "<i>Che strana la vita Manuelito, guardati, tu così elegante, questo vestito deve costare più del mio taxi diamine!</i>". Scoppiammo a ridere. Negli ultimi cinque minuti di viaggio continuammo a ridere ricordando i professori, le marachelle, gli esami di matematica. Una volta arrivati ci saluttammo, dovetti insistere molto per far sì che prendesse i soldi della corsa. Mi strinse fortissimo la mano al punto da farmi male e ci scambiammo i numeri di telefono per uscire a prendere una birretta insieme, un giorno magari. Scesi dall’auto e vedendo come si allontanava velocemente ebbi l’impressione che no ci saremmo mai più rivisti. Ad ogni modo avrei potuto raccontare a Eduardo che oggi avevo avuto l’onore di reincontrare il primo della mia classe.</div>
viaexprosahttp://www.blogger.com/profile/00595614017612234573noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4104611924802598041.post-16333015481304064702017-08-21T14:34:00.000+02:002017-08-21T14:34:00.258+02:00Ci vediamo domani<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi48b4g6_4L67Gegm28_irLDuc5UiqbPJ6jXZo81AORiMmdSMKbBbMokjYsQo-Nf9C0zK_JWJj0A7MrWOgt6kRdA_JMHuj7IJ3h6u6VuH0ic9gdM968y66Gq_eTx_biXAw1m_zpNgvls5s/s320/ci-vediamo-domani.png" width="320" /></div>
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"<i>Dammi un bacio</i>", le disse all’orecchio mentre il resto delle persone contava i secondi mancanti all’anno nuovo. Lei fece un passo indietro e si guardò attorno. Per tanto ballare aveva perso di vista il suo gruppo di amiche, era da sola abbandonata alla sua sorte. Lui non smetteva di guardarla come se in quelle due pupille e nelle tre dita della mano destra che toccavano la mano di lei fosse racchiuso il destino di tutta la sua vita.</div>
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“<i>Cinque, quattro, tre, due, uno!</i>” E il locale si riempì di coriandoli, musica e grida. Lei lo abbracciò, lui cercò le sue labbra e lei si girò dal lato opposto, abbracciandolo più forte. Quella notte era la sua prima notte da single, dopo sei anni di fidanzamento, ed era stata molto felice. Però la felicità non spezza l’amore e lei non riusciva a lasciarsi andare alla sensazione di voler dimenticare tutto con il ragazzo più bello e gentile che avesse conosciuto. Magari era solo un inganno della sua mente il fatto che lei lo vedesse in quel modo. Lui la tenne tra le sue braccia per tutto il tempo che lei volle, il contatto con i suoi seni gli faceva sentire il battito accellerato del suo stesso cuore. Erano state le migliori due ore che ricordava, però sentiva che aveva rovinato tutto osando farle una proposta così sfacciata. Nel momento in cui sentì che si stava staccando, le afferrò entrambe le mani e la baciò, chiedendole scusa. Quando le sue amiche la raggiunsero, lui si era già allontanato.</div>
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Lei si avvicinò al bancone per ordinare il suo ultimo bicchiere di Martini, anche se sapeva che non avrebbe dovuto più bere. Mise la mano nella borsa, sfiorava il cellulare, moriva dalla voglia di chiamarlo, scrivergli, chiedergli di venire, dirgli che gli mancava, che la faceva soffrire il fatto che lui non chiamasse per dirle lo stesso, che gli voleva augurare buon divertimento ovunque fosse, che se ne andasse a quel paese. Sentì che qulcuno la stava guardando ed era lui. Non quel lui, ma il ragazzo bello e gentile. Con lo sguardo lo invitò ad avvicinarsi e quando furono vicini scoppiarono a ridere nel vedersi completamente ubriachi. Lui prese il suo cellulare e le chiese se poteva chiamarla un giorno, quando fossero stati sobri. Lei che aveva pensato di baciarlo, sorrise, prese il telefono e scrisse il suo numero. Se l’era meritato. Prese il Martini che era pronto, ne bevve un sorso e gli disse: “<i>Ci vediamo domani</i>”. Lui annuì con la testa, incredulo. Lei andò a cercare le sue amiche. Aveva sentito così tante promesse in vita sua che era sicura fosse arrivato il momento d’iniziare a mantenere le sue.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSkRddXAyIPlpKjFwUju73TTRFWZ1NwhYvCptQ9p4uhUzQVT3-4JNFCO2pEvNMx1aif7NxfG4ma9NtxOr4YtxASurvswaxq8JxNJzaOiRKCGKegQ8OLWsM9lwUZLsE2o0BhL0vkFQLpbk/s320/whisky.png" width="320" /></div>
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Le cose non andavano molto bene nell’officina di Don Pascual. Una settimana prima, all’alba erano entrati a rubare – sicuramente i pneumatici tedeschi che aveva appena acquistato – e, sebbene se ne accorse in tempo e riuscì a farli scappare, i ladri gli avevano già scardinato la porta di metallo. Boris, il suo vecchio pastore tedesco neppure se n’era reso conto. Nonostante in passato l’avesse salvato da vari tentativi di furto, adesso i riflessi si erano indeboliti ed era diventato sempre più fiacco. Però a Don Pascual non passava neppure per l’anticamera del cervello di svegliarlo, dopo averlo accompagnato per dieci lunghi anni ogni giorno dalle sei del mattino fino a fine giornata, si meritava tutto il riposo del mondo.</div>
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Don Pascual non solo era il maggiore, ma era il migliore a gestire l’attività tra i suoi quattro fratelli, il successore designato da suo padre, capace di riuscire a far funzionare qualsiasi motore che gli mettessero davanti. Maestria acquisita con gli anni, che tuttavia si sarebbe portato nella tomba, perché nessuno dei suoi cinque figli si era mai interessato a questo mondo come invece aveva fatto lui sin da piccolino, tutto sporco di grasso, smontando sistemi meccanici complessi e sistemando i bulloni più malandati. Indubbiamente il buon Boris avrebbe imparato perfettamente il mestiere, se solo avesse potuto. Era sempre pronto, seduto e con gli occhi brillanti, sbattendo al suolo la coda e indossando una delle tante giacchette macchiate come tuta da lavoro, magliette vecchie alle quali Don Pascual tagliava le maniche. I clienti entrando salutavano entrambi con il rispetto che si deve ai padroni di un’attività di successo. Le giornate erano alquanto prevedibili: radio FM con l’unica stazione che trasmetteva buona salsa, <i>La Rumba</i>; scheletri di macchine che servivano per far resuscitare le auto appena arrivate; Doña Cecilia sempre puntuale all’una del pomeriggio con il pranzo per poi andare a farsi la siesta; i giretti di Boris al parco attraversando la strada; la birretta con l’amico che passa a salutare. Con gli anni arrivarono nuove macchine, nuovi clienti e nuovi amici. Però anche Don Pascual si sentiva stanco, gli apprendisti che arrivavano per aiutarli duravano poco e una volta imparato l’essenziale se ne andavano. E quindi si ritrovava a dover fare tutto da solo fino a che non se ne presentasse uno nuovo. Queste sfortune e il tentativo di furto della settimana precedente gli facevano credere che non era un buon periodo per l’officina.</div>
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A tre giorni da Natale, Don Pascual e il suo nuovo assistente stavano decorando la vetrina a malavoglia sotto imposizione di Doña Cecilia. “<i>Altrimenti niente tacchino per cena!</i>” aveva minacciato. Boris, invece non arrivò all’ora di pranzo, ultimamente ci metteva molto a trovare la strada del ritorno quando andava a passeggiare nel parco. Arrivò verso le quattro del pomeriggio e con un nuovo amico. Era un cane giovane, un incrocio tra un pastore e un siberiano, dal pelo frondoso color bianco e nero. Aveva lo sguardo un po’ triste, però si divertiva girando intorno a Boris, abbagliando e scodinzolando. Era abbastanza sporco, con il pelo cresciuto, ma non sembrava selvatico. Verso sera, venne presentato al resto della famiglia come nuovo membro e venne battezzato con il nome di Lupo. La mattina seguente Lupo e Boris sfoggiavano orgogliosi le loro uniformi da lavoro. I clienti erano contenti di vedere il nuovo componente della squadra e addirittura un acquirente tornò con un berretto da Babbo Natale per tutti. Doña Cecilia sorrideva soddisfatta, scattava foto con il suo cellulare e le inviava ai suoi figli, che presto sarebbero venuti a trovarli per passare insieme la notte di Natale. L’arrivo di Lupo aveva portato una ventata di aria fresca nell’officina che ora aveva un altro aspetto, era più vivace.</div>
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Arrivò il ventiquattro e Don Pascual decise di cambiare stazione radio per mettere dei canti di Natale. Pioveva, ma la gente comunque camminava frenetica per le strade con quell’agitazione tipica dei preparativi natalizi. Quel giorno avrebbe chiuso presto per aiutare a preparare la cena e accogliere figli e nipoti. Pensare a loro lo metteva sempre di buon umore. Prima del pranzo andò a comprare un paio di bottiglie di champagne per offrirne un bicchierino agli ultimi clienti che sarebbero passati. Ritornando dal supermercato trovò riparo sotto un cartello appeso a un palo della luce. Era la foto di Lupo, che in realtà si chiamava Whisky e aveva una famiglia che lo stava cercando. Rimase un attimo a guardare il palo, neppure il cartello, come a cercare di riordinare le idee. Tornò all’officina e vide Boris e Lupo dormendo mentre l’assistente canticchiava un canto natalizio che suonava alla radio, prese un guinzaglio e senza dire nulla a nessuno uscì con Lupo, che lo guardava perplesso con il suo berretto di Babbo Natale infilato in testa. Don Pascual fece un sospiro profondo, lo accarezzò con tenerezza e continuò a camminare, fischiettando il canto natalizio che stava suonando alla radio.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhroXJstp9Nz24x783jteW5YECUztMNOdkTdvYoXCUMLgV223-uXJY8hQ3aPlH63aCI0yii1tqX5KanKPkO0cHjc5oAdoU1JzEhMF8m_DQ63d6zsxEtDI9O__56G-2sv_rfOHzafF8r03M/s320/il-buon-vicino.png" width="320" /></div>
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“<i>Un aiuto giovanotto</i>” era –nel migliore dei casi- la frase con la quale accoglievano Modesto Carbajal nella Unidad Vecinal Matuta, quartiere dove era nato, cresciuto e molto probabilmente avrebbe passato il resto della sua vita. Solo cento metri separavano l’angolo nel quale lo lasciava il taxi dal suo appartamento, e nonostante la breve distanza qualcuno riusciva sempre a sottrargli qualcosa. Era quello il submondo che lo aspettava ogni sera, un luogo in cui le risse si sprecavano, così come i cani randagi e l’alcol. Mancava invece il resto, cominciando da un pezzo di carne nella zuppa all’ora di pranzo. Con la stessa analogia si potrebbe spiegare il suo destino: nuotava tra spaghettini scotti e verdura marcia, e lui era l’unico boccone che valeva la pena provare.</div>
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A differenza dei suoi vicini, Modesto venne educato a fare i compiti quando andava a scuola, a non andare in giro a bighellonare, a ringraziare e a lasciare sempre la mancia. Questi valori e il piccolo appartamento nel quale viveva furono l’eredità dei suoi genitori, che morirono uno dopo l’altro nel giro di un anno. Si amavano così tanto da non poter resistere molto tempo separati. Quando avvenne la dipartita Modesto già lavorava come avvocato in un’azienda petrolifera. Forse come segno di solidarietà, durante i due anni di cordoglio non subì nessun assalto, anzi addirittura una volta lo videro tornare a casa con cinque secchi di pittura e la mattina successiva bussarono alla porta cinque ragazzini pronti a dargli una mano. Con il passare del tempo, tuttavia, le cose tornarono alla normalità, cioè almeno quattro furti al mese. Quando gli andava bene lo salutavano cogliendo l’occasione di chiedergli un’offerta, un aiuto perché la situazione era insostenibile. Altre volte invece l’azione era ben più violenta e si ritrovava a terra con la tasca del pantalone rotta. A nulla servirono i suoi sforzi per imparare qualche mossa di karate e per di più non si vedeva certo realizzare spettacolari combinazioni di lotta contro i suoi aggressori, si sa, infatti, che soggetti come questi possono tirar fuori un pugnale o un coltello e colpire senza esitare. E men che meno poteva recarsi dalla polizia per denunciare che era vittima dei suoi stessi vicini, sarebbe stata la fine della convivenza o meglio, della sopravvivenza. Alla fine decise di rassegnarsi e di rilassare i suoi pensieri ascoltando le canzoni della musica italiana degli anni ’60, così poetiche e maliziose come la donna dei suoi sogni che ancora non aveva incontrato. I soldi potevano pure finire tra le sue “distribuzioni involontarie” – così aveva definito la sua sfortuna – però nessuno gli poteva togliere il piacere di danzare ogni sera tra i vinili brillanti, farsi accarezzare da un mix di parole bellissime, seppur incomprensibili, sorseggiando un bicchiere di rum e Coca-Cola gelata. Erano queste serate e i tramonti sul suo terrazzino, quando il sole già color arancione gli regalava sei metri quadrati di gloria e dove aveva collocato una sedia da spiaggia, che lo convincevano a rimanere in quel quartiere.</div>
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Una sera di quelle color arancio, mentre studiava affascinato l’iPod che aveva vinto a un sorteggio dell’azienda, qualcuno bussò alla sua porta. Era uno dei bambini del quartiere, anche se non lo conosceva era il dipinto della miseria come tutti gli altri. Aveva in mano un sacchetto di plastica e con un’inusuale timidezza gli chiese un po’ di zucchero, per favore. Inusuale perché i mocciosi del vicinato perdevano velocemente l’innocenza e l’ingenuità e si adeguavano pericolosamente all’ambiente ostile nel quale crescevano. Strano inoltre che gli avesse detto per favore. Il fastidio per essere stato interrotto scomparve presto, di fatto, riconobbe se stesso in quel bambino. Addirittura pensò che potesse aiutarlo. Gli avevano detto che poteva mettere tutte le canzoni dei suoi vinili nell’iPod. Lo invitò a entrare e dopo avergli offerto un bicchiere di Coca-Cola e avergli riempito il sacchetto di zucchero di canna lo convinse ad aiutarlo nell’ambiziosa impresa di digitalizzare un decennio di musica italiana. Con estrema naturalezza il piccolo cercò e scaricò ognuna delle canzoni e dopo un paio di ore staccò gli occhi dal computer e gli disse che il lavoro era stato completato. Modesto indossò gli auricolari e subito gli s’inumidirono gli occhi ascoltando le prime note di "<i>Cinque minuti e poi</i>". Gli diede una ricompensa come gesto di gratitudine infinita e il ragazzino se ne andò saltando. Vedendolo correr via, sorrise, con la speranza che almeno uno di quei ragazzetti avesse imparato a guadagnarsi una mancia senza, tra qualche anno, doverlo lasciare steso per terra con le tasche rotte.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdK5sagbJ8qWvwynH03YOL8LkjDMKML7AQL4x3JLws3FVXzR5kTUAQUBLEz3tz1zyxJK5J5hjXhC6j0P0ieURLok-PHgunAnNXfVLZLIzTLAOh-Q4zaJh6nJ5LW3bDSeei8Nysn4iMORQ/s320/una-su-un-milione.png" width="320" /></div>
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Questa è la storia di un uomo che dopo due anni di matrimonio si rese conto di essere allergico a sua moglie. E in questo caso non si tratta né di una battuta, né di un modo di dire nonostante molte coppie siano abituate a utilizzare il termine con estrema leggerezza riferendosi a tutto ciò che trovano pesante, brutto o assurdo. Capita talmente spesso che con il tempo si sviluppa facilmente l’allergia alla suocera, al supermercato, alla banca e compagnia bella. Ma questa volta non era così. Si trattava davvero di una strana malattia per la quale l’organismo di un individuo reagisce respingendo la vicinanza di un’altra persona, quella particolare persona che abbia un gene raro, presente in una su un millione. E succedede che proprio due scherzi della genetica finirono per incontrarsi e innamorarsi, alla faccia di qualsiasi modello statistico e probabilità.</div>
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Avevano avuto il sospetto che qualcosa in loro non andasse già da quando si erano conosciuti la prima volta. La migliore amica di lei era la fidanzata del miglior amico di lui e quando li presentarono non fu certo un colpo di fulmine, si piacquero il minimo indispensabile per andare a vedere insieme un film al cinema. Poco dopo l’inizio dello spettacolo lui cominciò a sentire prurito in tutto il corpo, la faccia divenne rossa come il sedere di un babbuino e iniziò a sentire un calore asfissiante che dalla punta dei piedi si diffondeva rapidamente fino ad arrivare alla testa. La rassicurava dicendo che tutto andava bene, ma poco dopo dovette alzarsi in piedi disperato per la mancanza di ossigeno per poi correre via andando a vomitare rovinosamente addosso a una coppia di sfortunati anziani e infine svenire stremato. La diagnosi non fu chiara, i medici non riuscivano a mettersi d’accordo e per un anno dovette presentarsi ogni tre settimane all’ospedale per sottoporsi a ogni sorta di analisi.</div>
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Chiamiamolo atto del più puro amore, innocenza o semplice masochismo, fatto sta che lui le chiese di uscire ancora e lei accettò. Anche quella volta i sintomi, seppur meno forti, si riproposero nonostante le pastiglie e gli intrugli vari. Si dice che quando l’amore bussa alla nostra porta non se ne va fino a che non lo facciamo entrare e anche se va via dopo un po’, ci lascerà per sempre un ricordo. Ed entrambi decisero, con una buona dose di coraggio, di aprire le loro porte all’amore. Dei rigurgiti e del resto se ne sarebbero preoccupati in seguito, perché alla fine si ama con il cuore e non pensando alle vie di fuga, se così si può dire. Quando terminò l’anno degli esami medici, gli dissero che era più sano di un pesce e che probabilmente i suoi mali dipendevano da uno stato cronico di stress. Invece di ritirasi il nostro eroe non potè trovare miglior forma di combattere lo stress se non cavalcando sul fertile, vasto e inesauribile campo del matrimonio.</div>
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I novelli sposini si adoravano, si desideravano, fino al momento in cui si toccavano. Lui si arrabbiava con se stesso e lei lo calmava dicendogli che presto tutto si sarebbe risolto, anche se in fondo non lo pensava davvero. Un giorno li visitò una signora dal nord che gli fece una sessione di “compatibilità di corpi”, una specie di stregoneria per la quale dovettero stare mezzi nudi a mezzanotte e in pieno inverno, circondati da fiori e immersi nell’acqua tiepida al profumo di poutpurì. L’unica cosa che ottennero fu un febbrone da cavallo e quattro giorni di riposo assoluto. Proprio durante uno di questi pomeriggi di malattia, navigando su internet, trovarono una persona in Finlandia che aveva esattamente la stessa patologia. In quattro e quattro otto si fiondarono all’aeroporto con la valigia piena di speranza e di cappotti pesanti per affrontare il terribile freddo finlandese. Bastarono venti giorni per avere una diagnosi, che ovviamente sorprese entrambi: era allergico alla sua stessa moglie. Gli prescrissero uno sciroppo e una crema che doveva mettersi tutti i giorni per il resto della sua vita, “fino a che la scienza avanzi e si trovi una soluzione migliore” gli dissero. Per la seconda volta, al posto di spaventarsi, non potè trovare miglior forma di accettare la notizia, se non cavalcando su un altro fertile, vasto e inesauribile campo: quello della paternità.</div>
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Ebbero tre figli in totale e ognuno di loro gli regalò altri due nipoti. Non si parlò più dell’allergia e neppure della Finlandia. Il destino li aveva già messi alla prova una volta ed erano riusciti a trovare un buon compromesso. Dalla prima notte e fino all’ultima, dopo essersi spalmato la sua crema e aver bevuto il suo sciroppo, le si avvicinava e la baciava sulle labbra, convinto che riuscirla a trovare equivaleva a una possibilità su un millione, ma amarla era una gran fortuna.</div>
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<img border="0" data-original-height="210" data-original-width="400" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUHXqYM9EEHYgY1iDu0PChU1yDeT-QjzI4XBcojLj2CetITyxuhcDdXC1bPWTqYi6JXYNZBa2BAWFcqyJ6pIml5TweZqKsYCctGLlL8SEawx3E-NNZh8HsJIZA6qgGJdRE94Lm_IzJf6E/s320/il-mio-amico-ivan.png" width="320" /></div>
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Ci conoscemmo letteralmente facendo a pugni. Era la Settimana Universitaria PUCP 2003 e si stavano giocando le semifinali di calcio, io giocavo nella squardra della facoltà di Architettura, lui per quella di Amministrazione d’Impresa. Eravamo zero pari e a pochi minuti dalla fine uno dei nostri attaccanti venne buttato a terra proprio davanti alla porta rivale. L’arbitro decise di non dare fallo e iniziò la rissa. Due ore dopo la squadra vincitrice, ovvero quella di Ivan, offrì sei casse di birra ai perdenti. E tra bicchieri pieni, barzellette sconce e occhi neri, diventammo amici.</div>
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<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Come se quella vittoria sportiva fosse stata una premonizione dei nostri destini, Ivan con il tempo ottenne senza grandi problemi ciò che io non riuscii mai: molte donne e molti soldi. Quando uscivamo, per esempio, mentre io mi sforzavo di ballare mantenendo il ritmo, cosa che non è proprio nelle mie corde, Ivan riusciva quasi sempre a conquistare qualche bella donzella. Non è invidia la mia, solo che io apprezzo la bellezza – di certo non sono un modello però esigo un minimo di armonia fisica in una ragazza – invece il mio amico era un cacciatore piuttosto conformista. Anche nel lavoro mi faceva le scarpe: io m’impegno per non fare errori, cosa che mi rende lento e prevedibile quando mi occupo di un progetto. Viceversa Ivan è più semplice, diretto e a volte folle. Quando lasciava un lavoro, mi chiamava e mi diceva che avrebbe trovato qualcosa di molto meglio. Io avevo timore che dopo tutto quel licenziarsi prima o poi non avrebbe più trovato un’occupazione, ma le mie paure non si avveravano mai, anzi andava proprio come diceva lui! Ogni volta trovava qualcosa di meglio. Passava mesi in Brasile o negli Stati Uniti e ogni anno ci vedevamo meno. Non si dimenticava mai di mandarmi le sue foto che lo ritraevano in spiagge magnifiche, in hotel grandiosi e – ovviamente – con donne stupende.</div>
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Una volta, organizzammo una serata tra vecchi compagni di università in un club, con tanto di partita di calcetto, per commemorare l’evento di dieci anni prima. Ci fu una buona partecipazione, alcuni vennero accompagnati da mogli e figli che si divertivano vedendoci intenti a riproporre le nostre mosse migliori. Ursula, la mia ragazza, non potè venire in quanto da lì a pochi giorni avrebbe dovuto sostenere un esame, ma mi disse di fare molte foto. Io in realtà non sono tanto per le foto e lascio che siano altri come Ivan a farle e poi a condividerle su Facebook. Verso sera, tra un bicchiere di buon vino e l’altro, parlammo un po’ di tutto, replicammo gli scherzi e i soprannomi di sempre, ricordammo i vecchi tempi e brindammo al futuro. Al calar della notte eravamo già ubriachi e dopo aver fatto qualche foto di gruppo ci salutammo calorosamente. Ivan si offrì di accompagnarmi a casa con la sua nuova BMW.</div>
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Durante il tragitto mi raccontò che si era stufato di Lima, che era ormai convinto di trasferirsi a Miami, lì aveva dei buoni contatti. Sarebbe venuto a trovarci una volta ogni tanto, questo certamente, anche perché i vecchi amici sono per sempre. Una volta arrivati, vidi che la luce del mio appartamento era accesa e quindi lo invitai a salire per fargli conoscere Ursula. Rifiutò in quanto mi disse che era stanco e che doveva guidare per arrivare dall’altra parte della città. Lo ringraziai per avermi portato a casa e lo abbracciai prima di scendere dall’auto. All’improvviso vidi che stava girando la faccia verso di me per provare a baciarmi, lo spinsi via. Ivan mi guardò con lo sguardo tra il pentito e lo stupito, si scusò immediatamente e mi chiese di non raccontarlo ai ragazzi. Aveva le lacrime agli occhi. Io ero alquanto arrabbiato e un po’ a disagio, ma gli risposi di non preoccuparsi, che avrei fatto finta di nulla. Questa volta gli strinsi forte la mano, gli augurai buona fortuna e gli dissi che speravo di rivederlo presto. Quella notte non chiusi occhio. Vedendo Ursula dormire di fianco a me, sentii che nonostante tutto, dovevamo considerarci fortunati perchè potevamo amarci e mostrarlo liberamente, mentre lì fuori ci sono persone che apparentemente hanno tutto, ma a causa di una società piena di pregiudizi e intolleranze non riescono a essere felici.</div>
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