25.8.22

Un lungo viaggio


Il viaggio è stato lungo, i miei passi non sono più quelli di una volta, neanche i miei sogni, che sono asincroni con il mondo immediato in cui viviamo oggi. Il viaggio è stato lungo ed estenuante e io, che sono stato un viaggiatore per gran parte della mia vita, sono rassegnato ad accettare che ora questo cuore avventuroso sia rinchiuso in un'armatura vecchia e obsoleta, che tuttavia porta le cicatrici del suo intenso passato. Il viaggio è stato lungo ma ne è valsa la pena, considerando che sarà l'ultimo.

Allontanarmi da questa città fu come un divorzio forzato, un addio senza preavviso. Dopo aver perso la mia famiglia nell'inverno del 1964 in quel dannato incidente stradale, mi convinsi ad allontanarmi completamente da quegli sguardi pietosi di tutti quelli che mi si avvicinavano. Anni dopo capii che qualcuno voleva davvero aiutarmi, ma quando sei giovane le idee più aggressive e audaci vincono. Vendei tutto e attraversai l'Atlantico per curare le mie ferite fisiche ed emotive, alcune delle quali rimangono oggi, cinquant'anni dopo.

Ero pronto per iniziare un nuovo capitolo della mia vita. Mentre per molti compiere ventidue anni significava solo l’inizio delle grandi sfide, dei primi traguardi, io invece mi sentivo una specie di veterano di guerra con la pelle dura e insensibile a qualsiasi evento mi accadesse. Insomma, avevo imbrogliato la morte e pagato il prezzo con la mia assoluta solitudine, cosa di peggio poteva capitarmi. Iniziai con Madrid, in via de Bravo Murillo, in una stanzetta sopra un ristorante cinese dove poi mi assunsero come assistente di cucina. Non subii fame, ma finivo le giornate così stanco che la mia mente si rifiutava di fabbricare sogni ogni notte. Con i soldi risparmiati andai a Lione e il destino – o la mia mancanza di giudizio – mi portò in un altro ristorante cinese, riscoprendomi con piatti impronunciabili e frigoriferi pieni di carni sospette. I miei soggiorni a Lione sono stati felici. Dico soggiorni perché partivo e dopo qualche mese tornavo. C'era sempre qualcuno disposto a lasciare quella città e io ero lì con lo zaino pronto a farmi dare un passaggio. Mi ci sono voluti anni, molti viaggi e alcuni bar memorabili per capire che non esisteva una vita "normale", come avevo sentito dire mia madre tante volte. Ognuno di noi è un universo complesso di idee, ricordi e speranze, tutte diverse e tutte imprevedibili. Quella scoperta mi salvò la vita e poiché mi ero salvato due volte, sapevo che potevo lanciarmi in altre sfide. Passai inverni bui e freddissimi a Parigi con Veronica, il mio secondo amore, perché lasciai il primo in quella città della quale mi ero ripromesso di non mettere più piede. Insieme abbiamo vissuto anche estati pazze a Nizza, girando in una bicicletta rossa. Gli anni Settanta sono stati i migliori e chi li ha vissuti sa cosa intendo.

Ma proprio in quegli anni ho pensato che sarei rimasto solo per sempre. Che le mie paure e i miei traumi non potessero permettermi di rendere felice una donna. Anche l'amore è una cosa rara, di quelle che non si possono definire perché ne limiterebbe la portata. Con Veronica abbiamo interrotto i nostri viaggi per stabilirci a Lione, dove ci eravamo conosciuti. Lei scelse la casa e parcheggiò fuori la sua bici rossa. Poco dopo diventò mia moglie e infine madre dei nostri quattro figli. Sono stati gli anni migliori delle nostre vite. Due di loro lasciarono la casa poco dopo il loro diciottesimo compleanno per cercare fortuna negli Stati Uniti, un'ambizione che li portò a fondare la più grande catena di ristoranti di lusso della costa occidentale. Gli altri due, il più piccolo e il più grande, si trasferirono a poche ore da dove abitavamo appena si sono sposati. Era strano sentirsi di nuovo soli, nonostante con Veronica ci divertissimo giocando a carte e facendo brevi gite nei fine settimana. I nostri figli ci avevano regalato non solo un'enorme felicità ma anche uno stile di vita che una pensione non avrebbe mai potuto coprire. Avevamo fatto bene il nostro lavoro, quattro volte.

Dissi addio a Veronica il 10 giugno del 2014, accompagnato dai miei figli e sei nipoti. La mia compagna di avventure e viaggi folli si ammalò improvvisamente. Una notte mi diede un bacio come sempre e la mattina dopo era lì, bella e tranquilla, dalla sua parte del letto. Le promisi di continuare a viaggiare e a fotografare, abitudine che avevamo acquisito di recente. Quando la famiglia se ne andò pochi giorni dopo il funerale, mi sentii stanco, non volevo più fare le valigie. Come se il mio corpo si fosse improvvisamente reso conto di quanti anni stava trasportando. Dopo notti insonni, litigai al telefono con uno dei miei figli. Avevo deciso di tornare dove tutto ebbe inizio, riconciliarmi con quella città che mi vide partire ingrato mezzo secolo fa. Non c'era niente a Lione che mi legasse a restare, tranne forse i pomeriggi di fronte al Rodano ad assaporare la brezza che filtrava tra le foglie degli alberi. O giocare a perdermi in uno dei suoi traboules. Ma tutto questo rimarrebbe nella mia memoria, potrei quindi dire addio alla casa di Lione e alla bicicletta rossa di Veronica. Sentivo che potevo finalmente tornare dove ero nato, visitare la tomba dei miei genitori e fratelli e chiederli perdono per non essere venuto a trovarli prima. I miei figli hanno capito il capriccio del loro vecchio e hanno accettato la sua ultima avventura. Starò a casa dei miei cugini, vicino al mare, dove siamo cresciuti e ora finiremo di invecchiare insieme. Li racconterò ogni giorno quello che i miei occhi hanno visto, spero di avere abbastanza tempo. Sono stato accolto da un cielo terso, un sole imponente e una città diversa. È stato un lungo viaggio, le ho detto, ma sono tornato.


Eduardo Ramon (Milano, 2014) 

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